DUCH, LE MAITRE DES FORGES DE L’ENFER di Rithy Panh

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Grazie alla 22esima edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina, mi è stato possibile vedere l’ultimo docufilm del regista franco-cambogiano Rithy Panh, che da anni si dedica a un lavoro di testimonianza e di memoria sul quanto accadde nel suo Paese d’origine negli anni della Kampuchea Democratica.

“Duch, le maître des forges dell’enfer” è un docufilm piuttosto lungo (103 minuti) sulla figura di Kaing Guek Eav, più noto come comandante Duch, l’uomo che diresse il famigerato centro di detenzione e sterminio S-21 a Phnom Penh, dove persero la vita 12 mila, forse 14 mila persone in un triennio.

Documentandomi sulla storia dei khmer rossi, mi sono imbattuta più volte in Duch. Di lui parla lo studioso di religioni orientali François Bizot ne “Il cancello”. Bizot ebbe la fortuna – che non toccò a tanti cambogiani – di finire prigioniero di Duch nel 1971 e di uscire vivo dalla sua prigione, per poter raccontare la sua esperienza.

Rithy Panh, che ha avuto il merito di divulgare le atrocità di Tuol Sleng con il suo docufilm del 2002 intitolato “S-21- The Khmer Rouge Killing Machine” – questa volta varca le soglie del carcere dove l’anziano comandante sta scontando una condanna a 35 anni per dargli la parola.

Il comandante Duch.

Il film è un monologo: l’ex insegnante di matematica racconta, si difende, si giustifica, ride e chiede scusa. Con un tono sempre pacato e monocorde, per lo più senza lasciar trasparire nessuna emozione. Si rianima, a tratti, solo di fronte a spezzoni di interviste fatte agli ex carcerieri di S-21, all’epoca adolescenti ai suoi ordini.

La scelta di Rithy Panh di non commentare, non far ascoltare delle domande e di lasciare solo la voce di Duch – interrotta brevemente, come si diceva, da brevi testimonianze – è di grande efficacia. Il personaggio emerge in tutta la sua contradditorietà. Duch si professa innocente: ha agito agli ordini dell’Angkar e non aveva scelta, altrimenti sarebbe morto anche lui. E lui non voleva morire. E’ una vecchia storia, già sentita.

D’altra parte, il piccolo intellettuale di origine sino-cambogiana (lui stesso racconta che il padre era commerciante e prestava denaro a tassi da usura) ha la furbizia di abbracciare fin da subito l’ideologia del partito, diventandone un fedele servitore. Per sua esplicita ammissione.

L’entourage di Pol Pot, cresciuto all’ombra della Sorbona, ha bisogno di gente come lui, sufficientemente intelligente da guidare la mano dei contadini per svolgere il lavoro sporco. Duch è fin da subito un uomo d’ordine, che risponde direttamente ai vertici del partito per il suo operato.

Ma anche lui, in fondo, è un intellettuale e, come racconta, ammazzare la gente è un lavoro più adatto a contadini analfabeti. Gente disposta a sporcarsi le mani di sangue senza pensarci. I suoi scagnozzi – coloro che interrogarono, uccisero, torturarono, stuprarono e uccisero – erano ragazzini di campagna, adolescenti facilmente addestrabili dall’ideologo Duch e disposti a eseguire ciecamente i suoi ordini.

Così funzionava la macchina di sterminio S-21. Duch dava gli ordini e compilava quintali di carte (i khmer rossi registravano tutto con la stessa maniacalità dei nazisti). Come racconta, “ero il primo della classe, avevo una bella scrittura, mi piaceva fare bene il mio lavoro”. Il burocrate dello sterminio khmer non guardava mai in faccia le sue vittime: non voleva correre il rischio di imbattersi in qualcuno che conosceva, cedere ai sentimenti e dare così il cattivo esempio alla sua truppa. Per questo motivo, si rifiutò di vedere la sua maestra delle elementari, alla quale era affezionato, quando fu arrestata e poi uccisa nel suo carcere. Se avesse scelto di intercedere a suo favore, poteva essere accusato di non svolgere bene il suo compito. Chissà. È sempre più comodo non guardare mai in faccia le proprie vittime.

L’ex carcere di Tuol Sleng, noto come S-21 – © Photo by Adam Jones adamjones.freeservers.com

Il carnefice Duch, che al processo nel 2009 ha avuto il coraggio di dichiararsi innocente, cade più volte in contraddizione in questa intervista fiume, lasciando intravedere la vera personalità e suscitando un fastidio quasi fisico nello spettatore. Dice di non essere sadico, ma stoico, ma si compiace orgogliosamente del lavoro svolto dalle sue guardie e del risultato ottenuto. Come un imprenditore orgoglioso dei risultati della sua azienda, sciorina senza alcun rimorso storie, fatti, ricordi legati al suo efficientissimo carcere.

Poi dice di essere pentito, di essersi convertito al Cristianesimo e di rimettersi al giudizio e al perdono di Dio. Riconosce di aver commesso dei crimini e chiede scusa. Ma il suo presunto pentimento sembra estremamente di facciata. Dice di cercare di dimenticare, perché se ripensa al passato è terrorizzato da quanto ha fatto. Ma se fosse veramente sincero, come potrebbe avere il coraggio di riconoscersi innocente? E di pretendere che persino la giustizia umana (non quella divina) lo consideri tale?

Duch è stato un feroce assassino, un volenteroso ed efficiente burocrate della morte, anche se non ha mai ucciso personalmente nessuno. Come i vari Eichmann, Hoss… La lista è lunghissima. La sua calma serafica  nello sciorinare dettagli agghiaccianti è irrita e indigna. Nelle scene finali, quando il prigioniero Duch mangia (abbondantemente), fa ginnastica, legge, prega quasi scatenano rabbia, al pensiero quest’uomo – oggi ultrasettantenne – possa concedersi un’apparente normalità fra le sbarre, dopo aver privato delle vita migliaia di persone con una studiata ed efferata  crudeltà.

Suscitano invece compassione quegli ex ragazzi che uccisero e torturarono, indottrinati e manipolati. Ma non suscita alcuna pietà Duch: lui era adulto, istruito e sapeva esattamente cosa stava facendo.

È faticoso seguire il docufilm di Rithy Panh, perché è faticoso entrare nella mente di un mostro. Ma l’operazione fatta dal regista cambogiano è meritoria. Mai dimenticare, obbligarsi a sapere e a ricordare, perché la Storia non generi altri mostri.

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