FERRERA DI VARESE: l’ex cotonificio Calcaterra

A Ferrera di Varese ci sono finita per vedere una delle cascate più note della provincia di Varese: la cascata Fermona. Piccola, ma graziosa. Dal paesino, circa 700 anime (dati 2012) in Valcuvia, ci si incammina nel bosco lungo una ciclabile, che in teoria dovrebbe portare a Grantola, il paesino limitrofo più a nord.  Invece, con un giro circolare, mi riconduce a Ferrera.

Si passa vicino al torrente Margorabbia. Il paesaggio non è indimenticabile, ma i colori d’autunno lo rendono piacevole. E forse il caldo anomalo per il mese di ottobre consente ancora delle fioriture inaspettate. Come questa Oenothera gialla.

Il percorso mi conduce a valle verso un’enorme costruzione abbandonata, che si intravede in lontananza. Deve essere l’ex cotonificio Calcaterra, di cui ho letto su internet. L’azienda che per un secolo ha retto l’economia di Ferrera e dei paesi limitrofi.

L’archeologia industriale mi affascina. Da vicino, la costruzione è gigante. Un edificio principale, dove probabilmente avevano sede gli uffici, e una serie di costruzioni laterali.

Da quel che si riesce a vedere, l’interno versa in stato di completo abbandono. Sbircio in una stanza: c’è ancora un crocifisso appeso, una vecchia poltrona anni Sessanta, un rotolo di carta igienica (forse qualche disperato usa questi spazi come bagno?). E’ uno scenario da The Day After.

L’ex cotonificio Calcaterra è stato fondato nel 1880. Per oltre un secolo, fino al maggio 1992, ha dato lavoro alla gente del paese e dei dintorni. Poi, è fallito. Come? Chi lo sa! Ma il destino mi riserva, sulla mia strada, un’informatrice imprevista. Imbocco un ripido sentiero che dalla fabbrica porta in pochi minuti in centro paese. A Ferrera incrocio una signora, sull’ottantina, che mi apostrofa: «Ah, avete fatto la salita dal cotonificio? Io l’ho fatta per anni, ci lavoravo. Il peggio era alla sera: turno di lavoro dalle ore 14 fino alle 22. Rientravo a casa dal sentiero che era tutto buio. Una gran paura! Finché poi hanno messo le luci…».

La signora mi informa che ai tempi d’oro ci lavoravano più di 100 persone. Il cotone grezzo veniva filato, poi era venduto per creare i tessuti. I proprietari Calcaterra negli ultimi decenni di vita dell’azienda (non so l’anno esatto) l’hanno venduta. E i nuovi padroni non hanno saputo gestirla, portando la fabbrica al fallimento. Forse sarebbe successo comunque: negli anni Novanta, era difficile reggere la concorrenza del cotone made in Egitto o India, con costi del lavoro decisamente inferiori. Ma l’ex operaia di Ferrera se la prende anche con gli altri lavoratori, che negli ultimi anni facevano poca attenzione alla produzione, lasciando che il filo uscisse difettoso, e quindi rispedito al mittente dai compratori.

Mi rattrista vedere il lavoro che se ne va. La gente di Ferrera di Varese ha vissuto per oltre cent’anni procacciandosi da vivere grazie al cotonificio… Nel centro del paesino, c’è un laghetto artificiale con una diga creata nel 1890, probabilmente per fornire acqua alla fabbrica. Tutto ha gravitato per oltre un secolo intorno a quest’azienda.

Su internet, trovo un progetto di recupero dell’area industriale abbandonata con un obiettivo ambizioso: la creazione di un Polo scientifico e tecnologico per lo sviluppo agricolo della montagna. Lo scorro rapidamente: alcune parti dell’ex cotonificio dovrebbero ospitare una serra , un caseificio, una stalla caprina, tutto con finalità didattiche. Data finale di consegna dei lavori: fine 2015. Ma io ho visto solo un rudere abbandonato e nulla di tutto questo. Mancano i fondi? O la bonifica è più dispendiosa del previsto? Molte di queste strutture di archeologia industriale giacciono nel più completo abbandono anche perché nessuno vuole sobbarcarsi i costi di bonifica (per esempio, di smaltimento dell’Eternit, dove c’è… E una volta l’Eternit, leggi amianto, si usava tanto).

I sentieri che costeggiano molti fiumi e torrenti lombardi, che percorro volentieri a piedi, passano spesso vicino a vecchie fabbriche abbandonate, più o meno grandi, che da decenni deturpano il paesaggio (e magari inquinano ancora l’ambiente).

Si stagliano come enormi scheletri lungo la strada. Niente a che vedere con i ruderi decantati da Ruskin e dai romantici, sia chiaro. Se nessuno si prende la briga di ristrutturarli, abbatterli e bonificarli, sono destinati a diventare uno sgradito regalo alle prossime generazioni. Un memento drammatico di quello che fu il tessuto produttivo lombardo, scomparso per sempre. Travolto da un capitalismo spregiudicato il cui verbo è “vai dove la manodopera costa meno”. E la gente che lavorava in queste fabbriche? Le famiglie che campavano grazie a queste attività? Chissenefrega. Faranno tutti gli chef.

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