IL MESTIERE DI TRADURRE – Intervista a Gianluca Coci

A chi ha avuto l’esperienza di vedere qualche film in lingua originale, il giapponese può sembrare facile. La pronuncia non è tanto diversa da quella italiana. Le frasi sembrano brevi e semplici. Ma le apparenze ingannano. In realtà, è una lingua complicatissima, ricca di sfumature difficili da tradurre e il testo scritto è un banco di prova arduo per un traduttore letterario. Come ci spiega dettagliatamente Gianluca Coci, che ha tradotto in italiano vari autori nipponici. Docente di Lingua e Letteratura Giapponese presso l’Università degli Studi di Torino, si occupa di letteratura giapponese moderna e contemporanea, in particolare di autori della prima generazione del dopoguerra, quali Abe Kobo e Oe Kenzaburo, e di autori contemporanei legati al postmoderno e alla letteratura pop, come Takahashi Gen’ichiro e Murakami Ryu. Ha soggiornato per circa sette anni in Giappone. Ha al suo attivo, tra l’altro, una monografia in giapponese sul teatro sperimentale di Abe Kobo (2005), numerosi saggi pubblicati in riviste specialistiche e circa venti traduzioni di romanzi di vari autori (Oe Kenzaburo, Abe Kobo, Kirino Natsuo, Setouchi Harumi, Takahashi Gen’ichiro, Taguchi Randy ecc.). Nel 2009 ha vinto il Premio biennale Scalise per la traduzione letteraria dal giapponese. Ha collaborato con la S.E.T.L. (Scuola Europea di Traduzione Letteraria), con l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e con l’Università “La Sapienza” di Roma. Sopra, Gianluca Coci con Randy Taguchi, scrittrice giapponese che ha tradotto ed è molto apprezzata per i suoi romanzi che uniscono mistica e tecnologia.

1- Come è nata la tua passione per una lingua così lontana e complessa come il giapponese?

A monte, prima della passione per la cultura e la lingua giapponese, credo ci sia la mia natura tendente all’esplorazione dell’esotico e del diverso. Mi ha sempre affascinato, sin da piccolo, la possibilità di scoprire mondi altri, inizialmente attraverso la lettura dei romanzi d’avventura, in seguito attraverso i classici della fantascienza e i viaggi all’estero. Il Giappone, in quanto emblema di terra e cultura distanti anni luce dalla nostra, ha cominciato a esercitare su di me una grande attrattiva all’epoca dell’ultimo anno del liceo, quando un bravissimo professore di filosofia mi spinse alla lettura di alcuni testi sullo zen e al contempo di scrittori quali Tanizaki e Kawabata. Inoltre non nego che possa aver esercitato su di me un’influenza positiva il fatto di aver vissuto in pieno la prima invasione dei cartoni animati giapponesi a metà anni Settanta. Al momento della scelta degli studi universitari, non trovai nulla di meglio che orientarmi il più possibile a… Oriente. E da allora la mia passione non ha mai smesso di crescere, né durante i sette anni vissuti in Giappone, né da quando ho cominciato a tradurre.

2- Che sforzo richiede il giapponese per riuscire a padroneggiarlo e affrontare la traduzione letteraria?

Per essere il più franco e diretto possibile, azzarderei una sorta di formula: quattro anni di studio intenso all’università, almeno altrettanti di permanenza sul posto e, naturalmente, leggere, leggere, leggere. Così come in tutte le professioni e i mestieri, nella traduzione letteraria c’è forse bisogno di una piccola dose di talento, ma anche e soprattutto di grande impegno, esercizio continuo ed esperienza: si possono fare passi da gigante leggendo a più non posso e scrivendo sia nella lingua di partenza che in quella di arrivo. Scrittori si nasce, traduttori si diventa…

3- La lingua giapponese scritta è molto difficile: i periodi sono a volte lunghi, la reggente è in fondo e magari occorre ribaltare l’intera struttura per tradurre in una lingua occidentale. Quali sono le maggiori difficoltà che ti capita di incontrare nella traduzione?

Sì, è esattamente come dici tu: l’opera di rewriting nella traduzione dalle lingue come il giapponese è enorme. Il testo, nella lingua d’arrivo, viene praticamente riscritto di sana pianta, per via della struttura del giapponese molto diversa e addirittura opposta rispetto a quella di gran parte delle lingue occidentali. Immaginiamo una pagina fitta di ideogrammi. Rigo per rigo, quando si traduce, accade un piccolo terremoto: quei caratteri esotici crollano giù al fondo della pagina, e il traduttore li raccoglie, li trasforma in caratteri latini e li ricolloca nell’ordine giusto su una nuova pagina.

In merito alle difficoltà, a parte quella a dir poco eccezionale appena descritta, direi che variano da testo a testo: a volte il gergo giovanilistico e lo slang, altre volte una particolare terminologia specialistica, altre volte ancora (anche per citare un aspetto più tecnico) la difficoltà di individuare il soggetto della frase, spesso omesso in giapponese, e di comprendere e ricostruire la struttura temporale, meno complessa in giapponese a causa del minor numero di tempi verbali e pertanto molto difficile da rendere in italiano.

4- Quanto conta per un traduttore letterario la conoscenza del contesto culturale di cui la lingua è espressione?

È fondamentale, ancor di più per chi traduce letteratura contemporanea. Oggi, Internet è una finestra aperta sul mondo e aiuta non poco, ma è necessario tenersi continuamente aggiornati, recarsi spesso sul posto e non soltanto sapere, ma soprattutto capire cosa accade in quel determinato paese, in quel determinato contesto culturale. Se non fossi rimasto per sette anni in Giappone (a volte mi sembrano pochissimi) e non avessi avuto modo di penetrare a fondo in una cultura e in una mentalità così diverse dalla nostra, non sarei mai stato in grado di fare questo lavoro.

5- Oltre ai classici, come Tanizaki e Kawabata, il pubblico italiano segue con interesse vari autori contemporanei giapponesi, come Murakami, Banana Yoshimoto e Natsuo Kirino, che tu hai tradotto. Dalla tua esperienza di traduttore, c’è un’evoluzione nella lingua giapponese letteraria?

Verso la metà degli anni Settanta, con l’esplosione della cosiddetta “letteratura pop” (Murakami Ryu, Murakami Haruki, Takahashi Gen’ichiro ecc.), il linguaggio degli autori giapponesi ha subito un’autentica rivoluzione: l’influenza del cinema, della musica rock, dei manga, della beat generation e della cultura Sixties in generale ha creato una voragine generazionale tra le più importanti degli ultimi decenni. La lingua “alta” di autori come Kawabata Yasunari, Mishima Yukio, Tanizaki Jun’ichiro prima, e Oe Kenzaburo e Abe Kobo poi, tanto per citare gli scrittori giapponesi più noti in Occidente, è stata spazzata via dalla lingua “pop” degli autori succitati, una lingua legata indissolubilmente alla contemporaneità. Citando Takahashi Gen’ichiro (autore da noi poco conosciuto, ma d’importanza fondamentale nell’ambito del processo di “contemporaneizzazione” della letteratura giapponese e del quale consiglio vivamente di leggere il formidabile “Sayonara, gangsters”, uscito in traduzione italiana un paio di anni fa), la lingua giapponese ha conosciuto nel periodo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta un “secondo genbun icchi” (unificazione tra lingua parlata e scritta): detto così, in poche parole, nei decenni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento gli autori giapponesi abbandonarono lo stile classico riservato alla lingua scritta e cominciarono a scrivere utilizzando la lingua colloquiale; similmente, da circa trenta’anni a questa parte, gli autori della nuova letteratura giapponese “pop” scrivono lasciandosi influenzare dalla lingua della cultura di massa e dal quotidiano.

Foto: La cover di uno degli ultimi libri tradotti da Gianluca Coci, “L’isola dei naufraghi”, di Kirino Natsuo, edito da Giano (€ 17).

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