THE DITCH – L’orrore del lager cinese

Tra i film di Venezia, ce n’è uno che vorrei segnalare perché, nell’ambito di quanto è stato prodotto sull’ambito concentrazionario, trovo che sia una piccola perla.

“The Ditch” (La fossa) del regista cinese Wang Bing racconta la storia di alcuni fra i primi cinesi inviati in campo di rieducazione. Siamo alla fine degli anni Cinquanta. Mao è al potere dal 1949, anno di nascita della Repubblica Popolare. Chi ha un minimo di istruzione (insegnanti, laureati) deve fare grande attenzione: basta una parola sbagliata per diventare nemico del popolo, in virtù di un’estrazione sociale non proletaria. Nessuno è al sicuro: un fraintendimento con uno dei propri superiori fa scattare la punizione.

Nel film, il campo di lavoro è nel deserto del Gobi. Fin dalla prima scena, appare inverosimile che un terreno arido e desolato possa essere dissodato, con la sola forza delle braccia, per diventare terra coltivabile. Soprattutto da una massa umana non solo non avezza a questo genere di lavoro, ma soprattutto denutrita. Sono anni di carestie in Cina: a questi nemici del popolo viene data una brodaglia con qualche chicco di riso. Che non è certo il “carburante” adatto per lavoro fisico così pesante.

Ci si domanda: l’obiettivo del lager è uccidere? I cinesi avevano lo stesso piano dei nazisti con gli ebrei? Il film sembra dirci di no. Si voleva rieducare, sfruttando una manodopera gratuita e forzata. Infatti quando il cibo scarseggia drammaticamente e i lavoratori muoiono come mosche, viene chiesto loro di restare fermi, sdraiati nei loro pagliericci, nel dormitorio malsano e scavato nella terra. Fermi consumano meno calorie, e per sconfiggere i morsi della fame c’è sempre una tazza di acqua bollente. O altre raccapriccianti soluzioni.

Sto leggendo “Necropoli” di Boris Pahor. Lo scrittore sloveno è uscito vivo da un lager nazista, e il suo racconto ricorda sinistramente le immagini del film di Wang Bing:

“Stare fermi e sdraiati era pur sempre il mezo più efficace per difendersi dalla morte. Anche quando l’organismo era irrimediabilmente intaccato, la posizione orizzontale rimaneva l’unico surrogato delle medicine inesistenti. Ed era la posizione più adatta per scivolare piano piano nell’abbraccio del vuoto, tanto più che i muscoli e le arterie, per la disidratazione, erano ridotte a strisce di liane secche ormai insensibili alle percosse della sofferenza”.

Wang Bing, che è un grande documentarista, ha creato un film che ha poco del film, è uno spaccato sulla quotidianità di sofferenza pura di un gruppo di esseri umani mostrata senza fronzoli, senza concessioni all’emotività del racconto, senza addolcire nulla con la narrazione. Non ci sono sussulti morali: lo spettatore vede scorrere i fatti davanti ai suoi occhi nudi e crudi, senza prese di posizione. Non ci sono buoni sentimenti, perché quando si riduce un uomo a una larva per la fame, è quella voragine che si crea nello stomaco a comandare. Ci sono solo briciole di umanità, perché con quel poco di forze che restano si può anche ricordare. Il ricordo aiuta l’essere umano a non essere annientato e a mantenere fino all’ultimo, malgrado le efferatezze che può compiere in nome della fame – ci sono anche episodi cannibalismo sui cadaveri – la speranza di uscirne vivo.

Commento del regista: “Tra il 2005 e il 2007 ho intervistato molti dei sopravvissuti al campo di Jiabiangou e ho così potuto ascoltare direttamente da loro il ricordo di quell’esperienza. Le loro storie, assieme al romanzo Addio, Jiabiangou di Yang Xianhui, sono state la base per la sceneggiatura del mio film”.

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