ZHANG XIAOGANG e i volti della memoria

Non saprei dire esattamente perché le figure di Zhang Xiaogang attraggono con la forza di una calamita lo sguardo. Ci guardano e sembrano chiamarci, reclamare la nostra attenzione. Eppure, nella loro cupezza, nell’espressione spenta – rafforzata da un sapiente uso dei grigi – sembrano delle fototessere in bianco e nero.

Molti richiamano – anche per i volti asiatici – le immagini dei prigionieri dei Khmer rossi, conservate al museo del genocidio Tuol Sleng di Phnom Penh. Aria spenta, persa, senza speranza.

I personaggi di Zhang Xiaogang sono in realtà volti dipinti attraverso il filtro della memoria, paiono provenire da un passato non collocabile, quasi atemporale (malgrado alcuni dettagli dell’abbigliamento), perduto nei ricordi dell’artista. Sono volti dell’anima, e forse è proprio qui il loro fascino. Sembrano usciti da un sogno, o da un incubo, in cui sono cristallizzati.

Le botte di luce sui volti – a tratti schiariti, quasi rattoppati – acuiscono l’idea del logoramento, quasi l’immagine fosse antica. Sul colore non oso dare interpretazioni, anche se la sensazione più ovvia va verso una focalizzazione emotiva del soggetto colorato, in contrasto con le altre figure, o verso una sorta di differenziazione. Non conosco il pensiero dell’artista in materia.

Ho scelto le immagini che mi hanno più colpita, fin dal primo momento. Diverso è il trittico Forever Lasting Love, battuto all’asta un mese fa circa per 10 milioni di dollari, che ha consacrato Zhang Xiaogang come uno dei nomi di punta più costosi dell’arte contemporanea. Personalmente preferisco i suoi volti grigi e ossessivi, che nella loro voluta inespressività sembrano comunque volerci parlare, quasi fossero i ritratti dei morti su una pietra tombale.

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