L’AMANTE DI DAMASCO di Rafik Schami

I luoghi dell’infanzia rappresentano per tutti una fonte di ricordi, spesso idealizzati. Dove povertà materiale o squallore morale ne escono smussati, filtrati dalla magia che solo il passaggio del tempo può regalare. Inconsapevolmente, la mente sceglie e conserva gli aspetti più gradevoli, e attenua il ricordo delle situazioni più critiche. Finche’ ci sembra, a distanza di decenni, che qualsiasi evento, anche il peggiore, non sia stato totalmente negativo nel nostro percorso. E’ un meccanismo difensivo, per superare i traumi più pesanti.

Allo scrittore è invece demandato di ricordare, salvando il più possibile i dettagli, per ricreare magicamente, con la parola, atmosfere e luoghi perduti. Ci riesce con successo Rafik Schami, damasceno trapiantato da decenni in Germania, scrivendo abilmente in tedesco. Al centro delle sue storie, c’è la sua città natale: Damasco con i suoi vicoli, le moschee, i suoi caffè e i suq. Una città celebre in passato per la sua capacità di accogliere e far convivere culture differenti (si veda, in proposito, l’ottimo libro Il minareto di Gesù di Stefano Cammelli, Il Mulino, 2005). Schami, chimico e romanziere, quella città non l’ha mai dimenticata – anche se ha dovuto andarsene – ed è ancora nel suo sangue. Atmosfere, personaggi, luoghi sono vividamente resi. Per chi ha visitato e amato Damasco, leggere i suoi libri è quasi ritornarci, col pensiero.

Ho finito da poco la lettura, per diletto, de L’amante di Damasco (Garzanti, 2009). Una storia d’amore fra Nura, giovane donna infelicemente sposata al calligrafo Hamid Farsi, e Salman, il giovane garzone cristiano del marito. In realtà, pur essendo fondamentale alla struttura della trama la relazione fra i due, il romanzo è un grande affresco della Damasco della fine degli anni Sessanta e della società dell’epoca (la condizione delle donne, la sessualità, la religione, ecc.). Benche’ l’autore parta da lontano – l’infanzia dei protagonisti – il ritmo è incalzante e la prosa è leggera ma capace di stimolare l’immaginazione del lettore.

Solo la parte finale, sul destino del calligrafo Hamid, dà la sensazione di essere in qualche modo distaccata dal resto della storia, e forse troppo lunga. Ma risponde comunque alla curiosità del lettore di sapere qual è la sorte di uno dei protagonisti principali del libro.

A lettura terminata, una domanda finale, però, ce l’avrei. La rivolgerei non all’autore, ma alla casa editrice italiana: perché questo titolo, “L’amante di Damasco”? Per curiosità, sono andata a controllare il titolo originale, con il quale il romanzo ha avuto successo in Germania: “Das Geheimnis des Kalligraphen”, ossia “Il segreto del calligrafo”. E in effetti, con questo titolo, anche il lungo capitolo finale acquisisce un più serio motivo di esistere. Perché bisogna dare un titolo di sapore Harmony a un libro che tale non è? Non ditemi che altrimenti il pubblico italiano non compra. Chi non ama leggere, non acquisterebbe comunque un romanzo di  500 pagine. Con o senza titolo in stile Harmony.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.