Un pensiero per JAFAR PANAHI

Con Il Cerchio, Leone d’Oro a Venezia nel 2000, il regista iraniano Jafar Panahi aveva squarciato il velo sulla condizione femminile nel suo Paese. Otto donne, otto storie, sullo sfondo la difficoltà dell’essere donna nell’Iran di oggi.

Eppure, quelle donne che Jafar Panahi ci ha mirabilmente raccontato, nell’Iran di oggi stanno trovando sempre più spazio: studiano (più degli uomini), lavorano, spesso godono di indipendenza economica e possono permettersi anche di divorziare, se il rapporto con il loro compagno non funziona.

In questo Iran che sta cambiando a livello di società civile, grava la morsa dell’autorità politica e religiosa. Il regime ha condannato ieri il regista Jafar Panahi a sei anni di carcere per “partecipazione a raduni e propaganda contro il governo”. Non potrà più uscire dall’Iran, scrivere sceneggiature – era stato lo sceneggiatore di alcuni film di Kiarostami – né realizzare film per i prossimi 20 anni. Non potrà parlare con i giornalisti. In sostanza, una condanna al silenzio, per un personaggio pubblico reo di aver sostenuto Mir Hussein Moussavi, candidato dell’opposizione, e che era già stato arrestato nel marzo scorso.

L’Iran, che da secoli si distingue nel mondo islamico per l’alto standard culturale e per la qualità dei suoi cervelli, non si merita questo bavaglio. Non solo per Panahi, ma anche per Shirin Ebadi e per tutti i talenti che sono stati costretti a vivere all’estero, mentre avrebbero potuto arricchire il loro Paese. E per chi è rimasto in Iran e ha provato sulla sua pelle il carcere di Evin. La scure che si è abbattuta su Panahi indigna chiunque abbia a cuore la democrazia e la libertà d’espressione.

 

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