BLUE NIGHTS: Joan Didion e il dolore della morte

Avrei dovuto incominciare con L’anno del pensiero magico (2005), il primo memoir della giornalista e scrittrice americana Joan Didion, dedicato all’elaborazione del lutto per l’improvvisa scomparsa del marito. Invece, da indisciplinata quale sono nelle scelte di lettura, mi sono fatta catturare prima da Blue Nights (2011), l’ultimo memoir di Didion (entrambi pubblicati da Il Saggiatore).

L’ho letto in un pomeriggio e ho sofferto con lei. Segno evidente che ha colpito nel segno, con la sua volontà di comunicare l’argomento chiave di questo memoir: la tragedia di vedere il proprio figlio morire prima di te. Dicono che sia la perdita più pesante per un essere umano, e personalmente non fatico a immaginarla. Eppure, Joan Didion non è esattamente il tipo di personaggio che ispiri simpatia, nel senso letterale di disponibilità a “soffrire con” un altro. Ha l’età di mia madre, e sua figlia era praticamente mia coetanea. Ma le analogie finiscono qui.

Joan e la piccola Quintana.

La ragazza si chiamava Quintana Roo, come un pueblo messicano. Scelta stravagante di genitori intellettuali stravaganti, appartenenti all’agiata upper class, divisa fra East Coast e California. Joan si ritrova a 25 anni a fare la giornalista a Vogue e quando a 31 scatta in lei il desiderio di maternità – che per un qualche motivo fisico, che non ci spiega, non riesce a realizzare – si materializza per lei una “bambina perfetta”, neonata, da adottare, grazie a una semplice telefonata con un medico amico di amici, conosciuto in una gita in barca… Facile, vero? Forse negli States. Qui ottenere l’idoneità all’adozione è un processo lungo e faticoso, probabilmente più pesante psicologicamente  (e non solo) della fatica fisica di una gestazione e di un parto plurigemellare. Soprattutto per l’ansia di sentirsi dire di no.

Quintana è bella, intelligente, precoce. I suoi genitori adottivi, in viaggio per lavoro e per piacere, la trascinano da un hotel di lusso all’altro, dove impara a cinque anni a mangiare caviale (che spesso finisce in conto spese delle case editrici che pagano la trasferta della famigliola: bei tempi, eh, cara Joan?!). Frequenta case da sogno e divi hollywoodiani, trascorre le vacanze nella villa di Saint Tropez della coppia Richardson-Redgrave, ma quest’infanzia dorata non le impedisce di diventare una bambina e poi una ragazzina sofferente. Afflitta da un mal di vivere che sua madre, confessa, non è stata in grado di vedere, perché l’ha considerata, per tanto tempo, “una bambola”.

Quintana muore a 39 anni. Il lutto per la morte della figlia si tramuta, in Blue Nights, nel lutto per la perdita di sé. Joan imbocca la china e si scontra con la vecchiaia, quella vera, che vuol dire capolinea, fine della vita. Fine della persona che sei stata, con una regressione delle capacità del corpo che finisce per distruggere anche la psiche. Da un giorno all’altro, da adulto “normale” diventi un vecchietto cui è sconsigliato vivere da solo.

“La paura non è per ciò che è andato perso. Ciò che andato perso è già murato in una parete. Ciò che è andato perso è già chiuso dietro porte sbarrate. La paura è per ciò che c’è ancora da perdere”, scrive Didion. Paura per se stessa, paura di non essere più capace di vivere, giorno per giorno, con il ricordo della figlia tanto amata al suo fianco.

Ho finito di leggere Blue Nights in un giorno. Oggi mi sono comprata L’anno del pensiero magico, non ho resistito.

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