LE SILENCE DU BOURREAU: François Bizot e il processo a Duch

libro bizot

Ho letto Il cancello (Le portail) di François Bizot qualche anno fa, e mi aveva profondamente colpita. È un memoir –  un po’ romanzato, perché la nostra memoria non è una macchina fotografica, né un registratore, soprattutto se si scrive a distanza di anni – scritto dall’orientalista francesc Bizot (classe 1940) che nel 1965 si era recato in Cambogia per studiare il buddhismo locale. Era ancora lì nel 1971, quando viene catturato dai Khmer Rossi, diventando il primo e ultimo prigioniero occidentale uscito vivo da un loro centro di detenzione. E ci rimase fino alla presa di potere dei Khmer Rossi e alla cacciata definitiva di tutti gli stranieri. Bizot amava profondamente la Cambogia: l’arte e la religione erano il suo oggetto di studio, ma si sentiva a casa fra quella gente, di cui conosceva la lingua e la cultura. Aveva sposato una donna del posto e aveva una figlia, Hélène.

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Quando mi è capitato fra le mani, l’ultima volta a Parigi, Le silence du bourreau (Il silenzio del carnefice, 2011 – non pubblicato in italiano) non ho potuto non prenderlo. Il libro torna, in veste di saggio, sul rapporto fra Bizot e il suo carceriere, nome di battaglia Duch (Kang Kek Iew, 1942), famoso per aver diretto il campo in cui Bizot fu prigioniero fra l’ottobre e il dicembre del 1971, ma soprattutto per il suo ruolo di comandante del famigerato S-21, oggi museo del genocidio di Tuol Sleng a Phnom Penh, dove passarono 17 mila prigionieri e ne uscirono vivi solo 7.

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Duch è stato processato nel 2009 e condannato a 35 anni di carcere come criminale. Come si può vedere nella foto, era ormai un uomo avanti negli anni, come gli altri imputati. François Bizot ha partecipato al processo in veste di testimone e nel libro Le silence du bourreau riporta la trascrizione della sua deposizione, l’8 e 9 aprile 2009.

C’è qualcosa di disturbante nell’esperienza che Bizot riporta, lui che ebbe il privilegio di entrare in confidenza con il boia al punto da stabilire una relazione non amichevole, ma comunque umana. Per uccidere e sterminare, occorre disumanizzare la vittima, tramutarla in un nemico da eliminare in nome di un’ideologia. I genocidi del Novecento ce l’hanno insegnato in modo chiaro. Gli hutu chiamavano i tutsi “scarafaggi” per insultare la loro umanità.

Ecco, il giovane Duch, che all’epoca aveva 27 anni, finisce per provare una sorta di desiderio relazionale verso quel prigioniero francese quasi suo coetaneo, che conosceva la cultura della Cambogia meglio di lui e la adorava. Non lo vede più come un pericoloso nemico, un controrivoluzionario da eliminare, ma come un uomo. Bizot ci mette tre mesi, ma alla fine convince Duch di non essere una spia della CIA. E Duch gli crede, al punto da rischiare la sua pelle per ottenere dai vertici del partito il rilascio del prigioniero.

Bizot non può non ricordarlo, al processo. Non può perdonare Duch e i Khmer Rossi per aver assassinato un Paese, ma la descrizione che dà dell’ex giovane capo è umana. Perché con lui Duch è stato umano. E questo mette ancora i brividi a Bizot, a distanza di quasi trent’anni. «Avevi di fronte a me un uomo che assomigliava a molti dei miei amici. Un marxista, un comunista marxista, che era pronto a dare la sua vita per il Paese se fosse servito, per la rivoluzione nella quale credeva», scrive Bizot.

Un giovane che, entrato in una macchina infernale, non ha più potuto sottrarsi. Ed è diventato uno dei più feroci assassini della Storia del Novecento. Ma ciò che spaventa Bizot di fronte a Duch è la domanda: se fosse toccato a me, cosa avrei fatto?

khmer rossi

Duch è stato un Khmer Rosso, ma il suo atteggiamento ricorda molti altri uomini, in luoghi e tempi diversi, che diventano ingranaggi di una macchina infernale e non riescono a sottrarsi. L’unico modo per continuare a vivere è eseguire il proprio compito con una feroce precisione, tacitando la propria coscienza, disumanizzandosi.  A fine lettura, la domanda di Bizot mi si è rigirata addosso: e io, al posto di Duch, cosa avrei fatto?

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