IL SORRISO DI POL POT: un gruppo di svedesi che incontrò il Male ma non lo volle vedere

Il sorriso di Pol Pot del giornalista e scrittore svedese Peter Fröberg Idling è un libro straordinario. Ringrazio Marilia Albanese per averlo segnalato durante un incontro sulla Cambogia dei khmer rossi, tenutosi a Milano alcuni mesi fa.

L’autore, che ha vissuto in Cambogia e ha girato il Paese negli anni Duemila, imparandone anche la lingua, ha il merito di far luce su un capitolo storico breve ma sanguinoso partendo da un episodio apparentemente di poco conto: la visita di una delegazione svedese, nell’agosto 1978, dell’Associazione di Amicizia Svezia-Kampuchea.

A tre anni dalla presa del potere dei khmer rossi e a pochi mesi dal suo crollo, gli svedesi visitano un Paese governato con il terrore. Dove è in atto un genocidio e la delazione regna sovrana. Dove comanda un regime che, dopo aver eliminato i nemici della prima ora, non si fa più scrupolo di falcidiare (la parola usata per uccidere è “distruggere”) anche i suoi sostenitori più convinti. Apparentemente, senza una ragione: chiunque in Cambogia poteva diventare per un nonnulla un pericoloso nemico da eliminare.

Idling ricostruisce quello scenario con una catena di flashback, un mosaico che ricomposto delinea il percorso di Pol Pot e del vertice dell’Angkar – l’Organizzazione in nome della quale un intero popolo fu vessato e in parte sterminato – dagli anni di Parigi alla Sorbona fino alla sconfitta finale, intrecciando interviste e testimonianze dei sopravvissuti.

E nel contempo, il giornalista svedese indaga sulla visita della delegazione svedese, che girò il Paese e lo raccontò in toni trionfalistici. Come mai  in tutti quei giorni trascorsi in Cambogia nessuno degli svedesi si è accorto di niente? Come è stato possibile non vedere che le atmosfere bucoliche erano una finzione, una recita finalizzata ad attrarre la benevolenza dell’opinione pubblica internazionale sul tentativo cambogiano di costruire un’umanità nuova?

Questo gruppetto di donne e uomini simpatizzanti della Kampuchea democratica avevano scritto, sognato, inneggiato ai progressi di questo Paese. Credevano sinceramente che potesse rappresentare un’alternativa reale, una nuova via verso una società più giusta. Una di loro, Marita, aveva sposato in Europa un cambogiano, poi rientrato in patria per dare il suo contributo alla rivoluzione, e poi sparito nel nulla, come migliaia di altri connazionali. Per non creare problemi, Marita aveva persino rinunciato a indagare sulle sorti del marito durante la sua permanenza in Cambogia.

Probabilmente Idling ha ragione: al di là della mise en scène perfetta orchestrata dal regime per i suoi ospiti occidentali, gli svedesi non videro perché non vollero vedere. Non si fecero domande, quando avrebbero potuto farlo, perché nutrire dubbi sulla Kampuchea democratica sarebbe stato un po’ rinnegare se stessi e quegli ideali politici nutriti per anni con passione e dedizione.

D’altronde, anche i comunisti di casa nostra a volte guardarono con indulgenza agli errori dell’Unione Sovietica o della Cina maoista, con la stessa condiscendenza che si ha verso un bambino che sbaglia “ma crescendo, imparerà”. In fondo, il capitalismo aveva alle spalle una storia di secoli, mentre il comunismo era giovane e doveva trovare una sua strada, tutta in salita perché assediato dai nemici.

Non c’è peggiore cieco di chi non vuole vedere. La Cambogia stessa, in nome della pacificazione nazionale, per anni dopo la caduta dei khmer rossi ha scelto di chiudere gli occhi. Non si poteva mandare alla sbarra metà o più della popolazione. Esattamente come non si condannò come nazisti tutti i tedeschi, alla fine della guerra. Ma non ci può essere una vera riconciliazione nazionale senza giustizia. Pol Pot è morto a casa sua, portando nella tomba i suoi segreti, nel 1998. E quando finalmente lo scorso anno si sono celebrati dei processi, alla sbarra c’erano dei poveri vecchietti, come il fratello numero due Nuon Chea e Duch, il sanguinario comandante del S-21. Le loro parole restano comunque consegnate alla Storia e la condanna ha un forte valore simbolico… Ma guardandoli ho avuto un unico pensiero: troppo tardi.

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