IL MESTIERE DI TRADURRE – Intervista a Ilaria Vitali
Ferrarese di nascita, ma viaggiatrice per vocazione e cittadina del mondo – Ilaria Vitali è una giovane traduttrice con una nicchia di lavoro molto particolare. Dopo la laurea in Lingue, ha vinto un dottorato in Letterature Francofone all’università di Bologna, che ha completato alla Sorbonne. Parigi ha segnato il suo breve – per motivi anagrafici! – ma intenso percorso professionale. Oggi traduce dal francese autori francofoni –francesi di seconda generazione o trapiantati – che usano una lingua arricchita di termini ed espressioni legati alla loro cultura d’origine. Nella capitale francese, Ilaria Vitali ha scritto anche il suo primo romanzo, intitolato “A tua completa traduzione”, pubblicato da 0111 Edizioni nel 2011, in cui la protagonista, Alice, è come lei una traduttrice che vive a Parigi.
Ilaria ha esordito come traduttrice nel 2007 con “53 centimetri” della scrittrice franco-gabonese Bessora (Epoché Edizioni). Fra le altre opere che ha affrontato, “Viscerale” di Rachid Djaïdani, scrittore e regista di origine algerino-sudanese (Giulio Perrone Editore, 2009) e “Diario di un cazzeggiatore” di Samuel Benchetrit (Giulio Perrone Editore, 2010). Ha tradotto anche la scrittrice cinese Shan Sa, che scrive in francese.
1- Tradurre dal francese può apparentemente sembrare facile rispetto ad altre lingue extraeuropee. La tua esperienza ruota intorno ad autori che provengono dal mondo maghrebino e africano e che scrivono in un francese probabilmente ricco di espressioni e termini provenienti dal mondo d’origine cui appartengono, o dalle banlieue. Quali sono le maggiori difficoltà in cui ti sei imbattuta per portare al lettore italiano questa loro dimensione linguistica?
Le difficoltà non sono poche, perché gli autori che traduco scrivono spesso in una lingua che non è materna, che è «travagliata» da altre lingue (di matrice africana, tzigana, araba…). Il loro linguaggio è stratificato, ricco di prestiti o «forme mescidate», e questa ibridazione linguistica non è casuale: ha lo scopo di tradurre un’identità composta da un mosaico di tasselli diversi. Anche per questo, nei loro testi compare spesso il cosiddetto code switching, ovvero l’alternanza, all’interno della stessa frase, di termini francesi e allogeni. Si tratta di un vero e proprio manifesto identitario che non può essere dimenticato in traduzione. È dunque necessario tenere sempre presente la polifonia linguistica del testo di partenza; il rischio traduttologico principale è infatti quello di appiattire il testo, di neutralizzarlo. Per evitare questo, occorre tener conto della sua ramificazione linguistica e riprodurla al meglio nella lingua d’arrivo, cercando di volta in volta le strategie più adeguate.
Per quanto riguarda in particolare gli autori provenienti dalle banlieue, la difficoltà maggiore è costituita dalla resa di quel particolare linguaggio argotico chiamato français contemporain des cités, un socioletto caratteristico dei quartieri disagiati la cui componente fondamentale è il verlan, linguaggio a chiave che consiste nel rovesciamento delle sillabe delle parole (nel caso più semplice, cité > téci ; métro > tromé etc.). Si tratta di un linguaggio concepito all’origine per essere criptico, incomprensibile ai non iniziati. Tuttavia, con il tempo, il français des cités si è evoluto e ha oggi una forte componente ludica, che lo rende, se ben utilizzato, molto piacevole alla lettura.
L’insieme di questi elementi – code switching, français des cités, verlan… – complica notevolmente il lavoro del traduttore, anche perché gli autori in questione non si limitano a utilizzare queste strategie in maniera passiva, ma spesso le sfruttano per creare neologismi, il che implica un impegno fortemente creativo anche da parte del traduttore.
2- Quanto è utile, a tuo giudizio, lasciare delle parole straniere (per esempio, di origine araba) all’interno del testo tradotto, per rendere la dimensione linguistica dell’autore? Puoi farci qualche esempio delle tue scelte?
Se il termine «straniero» compare nel testo originale, se è cioè una scelta dell’autore, la cosa migliore è lasciarlo così com’è, senza tradurlo. Si tratta sempre di quella volontà di riprodurre un «meticciato linguistico», stratificazione di prestiti, xenismi e varianti che, sovrapponendosi, danno profondità ai testi.
Naturalmente è anche necessario tener conto che non tutti i paesi hanno la stessa dimestichezza con una particolare lingua e cultura (per esempio, i francesi conoscono il Maghreb molto meglio di noi e sono in contatto da tempo con la darija, la variante araba che si parla in quell’area). In alcuni casi può essere utile inserire un apparato paratestuale. Io – come penso quasi tutti i traduttori editoriali – non amo molto le note a piè pagina che spezzano il ritmo della lettura, non mi dispiacciono però i glossari in appendice. È una soluzione meno invasiva ed è quella che ho scelto per la traduzione del romanzo “Viscéral” di Rachid Djaïdani. Un’altra strategia che può essere utilizzata è quella di inserire la traduzione del termine direttamente nel testo, dopo il termine «straniero» in questione. Ma questa tecnica, a mio avviso, può essere utilizzata solo se lo stile dell’autore la autorizza (per esempio, perché lui per primo sfrutta strategie analoghe in altri punti della sua narrazione).
3- L’Italia è terra d’immigrazione più recente. Le seconde generazioni sono ancora una minoranza, mentre in Paesi come la Francia siamo già alla terza (e oltre). L’italiano dunque è ancora povero di termini “ibridi”, cioè entrati nella lingua comune ma con una chiara radice straniera. Ci sono invece nella lingua francese?
Ci sono, sì. Per esempio, il verbo kiffer. Costruito a partire dall’arabo kif (mix di hashish e tabacco e, per estensione, qualcosa che procura piacere), questo verbo significa oggi «amare qualcosa o qualcuno». Anche diversi termini del verlan, di cui ho accennato sopra, sono ormai stati «istituzionalizzati» e sono entrati a far parte del dizionario. Per esempio ouf per fou, che significa «pazzo», «folle». È un termine ormai molto sfruttato dalla pubblicità, dalla musica e usato anche dai francesi “doc”.
4- Qual è l’autore che hai tradotto, al quale sei più affezionata? E perché?
Sono affezionata a molti degli autori che ho tradotto. A Bessora, perché è stato con il suo romanzo, “53 cm” , che ho mosso i primi passi in questo mestiere; a Samuel Benchetrit, perché traducendo “Récit d’un branleur” ho riso fino alle lacrime… Ma se dovessi indicare l’autore che più ho amato tradurre, non avrei dubbi nel dire Rachid Djaïdani. Un autore «intraducibile», che mi è costato notti insonni ma anche la più grande delle soddisfazioni: i suoi complimenti per come avevo tradotto il romanzo “Viscéral”.
5- Qual è l’aspetto più affascinante, a tuo giudizio, del mestiere di traduttore?
Ogni volta che traduco un romanzo, entro letteralmente dentro la storia. I personaggi diventano amici con cui condividere avventure. Ho l’impressione di sentirli parlare, di vederli muoversi e di contribuire alle loro azioni, di renderle accessibili a chi non potrebbe apprezzare la loro storia in lingua originale. Resto convinta, insieme a Bufalino, che tradurre sia il modo più vero e profondo di leggere un romanzo. Ho cercato di descrivere la particolare complicità che si sviluppa con il testo nel mio primo romanzo, “A tua completa traduzione” . Direi che è senza dubbio questo l’aspetto più affascinante del mestiere del tradurre.