Nostalgia da DIZIONARIO: ricordi di un ex studentessa di lingua giapponese
È appena uscito, per i tipi della casa editrice Vallardi, il Dizionario Maxi dedicato agli ideogrammi della lingua giapponese (€ 28,50). 2136 kanji, descritti con precisione da Marina Speziali, che guida lo studente passo per passo – o meglio, tratto per tratto – alla scrittura, illustrando le due letture on e kun e facendo alcuni esempi di parole composte con la presenza del kanji in questione.
L’obiettivo, per qualsiasi studente alle prime armi del giapponese, è impadronirsi della tecnica dei tratti. Dal numero esatto di essi e dai radicali che entrano in gioco nei kanji più complessi, si può identificare l’ideogramma sconosciuto e capire finalmente cosa significa. È un gioco tutt’altro che semplice. Ma fa parte della meraviglia e del piacere intenso che questa lingua nella sua forma scritta regala. Trovare un kanji è come vincere in una caccia al tesoro: seguendo tutti gli indizi, finalmente si giunge alla soluzione del mistero.
Ho amato infinitamente questo gioco, al quale purtroppo non ho più tempo di dedicarmi con assiduità. È un piacere estetico, in primo luogo. Una gioia per gli occhi. Perché i kanji sono arte e bellezza nella quotidianità. Ma sono anche difficoltà: tant’è che i giapponesi stessi imparano rapidamente a semplificarli, in una scrittura corsiva veloce. Ma nella prima fase dell’apprendimento, il gakusei straniero è come un bambino giapponese delle elementari (con l’aggravante che quest’ultimo sa parlare alla perfezione, mentre lo straniero no!): occorre interiorizzare la pratica della scrittura dei kanji, con una rigida disciplina e molte ore d’esercizio. Poi, poco alla volta, la mano apprenderà a scorrere da sola. E questa sarà una soddisfazione impagabile.
Dizionari come questo di Marina Speziali un quarto di secolo fa non esistevano. Lo studente di lingua giapponese doveva per forza conoscere l’inglese, perché i suoi strumenti di apprendimento esulavano dall’italiano, con qualche rara eccezione. Ciò rendeva l’avventura linguistica ancora più eccitante. Man mano che il livello di conoscenza procedeva oltre il basico, poteva capitare di dover munirsi anche del dizionario di inglese, se ci si imbatteva in qualche vocabolo non noto.
Non se ne parlava di trovare i dizionari in qualche libreria milanese. Ricordo ancora, il primo anno, l’eccitazione all’invio di un ordine postale collettivo per il Sanseido e per il Nelson. E che piacere per tutti quando il pacco era arrivato dal Giappone! Dopo varie settimane, naturalmente: correva l’era pre-Amazon.
L’oggetto che ho più amato è il Nelson, ossia The Modern Reader’s Japanese-English Dictionary di Andrew N. Nelson (detto familiarmente il Nelson, come al liceo si diceva il Rocci), editore Charles E. Tuttle. Lo conservo ancora nella sua cover cartonata come una reliquia e ogni tanto mi tolgo lo sfizio di consultarlo: un piacere per gli occhi e i neuroni. Più complesso del dizionario della Speziali, il Nelson include circa 5000 kanji ed è una vera Bibbia per il nihongo no gakusei. O meglio, forse lo era. Presumo che oggi con qualche semplice software – che mi vanto di non aver acquistato – il mistero di un kanji sia svelabile in pochi secondi.
Invece, nell’era in cui il Nelson era la nostra guida occorreva rivolgersi a lui come a un oracolo. E come una Pizia capricciosa, richiedeva di essere preso per il verso giusto. Occorreva conoscere la tecnica di consultazione. Se non si era in grado di “dissezionare” chirurgicamente un kanji nei suoi tratti, il Nelson rimaneva silente.
E malgrado lui avesse tutte le risposte, poteva anche capitare che la combinazione di due ideogrammi che si cercavano non fosse prevista. In tal caso, come nel gioco dell’oca, si retrocedeva alla casellina precedente e si ricominciava la ricerca daccapo! Tentando magari di incrociare il verdetto sibillino del Nelson con qualche altro dizionario romaji-english, di pura traduzione.
Cinque anni di liceo classico, con lo studio del greco e del latino, mi avevano allenata a subire pazientemente la tirannia dei dizionari, traendone persino qualche forna di perverso piacere. Il giapponese non poteva che essere più divertente. Al di là delle traduzioni dei testi letterari – piuttosto complessi – in fondo si trattava pur sempre di una lingua viva, che nella sua parte colloquiale si presentava più accessibile e concretamente utilizzabile.
Scusatemi se vi parlato del Nelson come di un vecchio fidanzato. Forse, in parte lo è. Come quei fidanzati che la sorte ti ha costretto a lasciare e di cui serbi nel cuore un ricordo ricco di affetto e nostalgia. Forse anche perché è legato a una fase della vita in cui potevo permettermi il lusso di trascorrere delle ore china sulle sue pagine fittamente piene di meravigliosi ideogrammi.