LA STORIA DELLA PRINCIPESSA SPLENDENTE il 3, 4 e 5 novembre

Kaguya, la principessa splendente.
Kaguya, la principessa splendente.

Il 3, 4 e 5 novembre prossimi esce nelle sale italiane La storia della principessa splendente (2013) di Isao Takahata, prodotto dal celebre Studio Ghibli.

È una bella favola antica, ispirata al Taketori Monogatari (竹取物語), un testo giapponese del X secolo dove si narra di una principessa, figlia del re della Luna, venuta sulla terra per espiare un peccato. La creatura viene trovata in bosco di bambù, da un anziano tagliatore (da qui, taketori, che vuol dire “tagliatore di bambù”). La microscopica fanciulla, splendente di una luce sovrannaturale, si tramuta nella fiction di Takahata in una neonata, che viene cresciuta amorevolmente dal tagliabambù e da sua moglie. La bambina è speciale: il vecchio lo capisce dalla quantità di oro in cui si imbatte, che spenderà per assicurare alla principessa Kaguya una vita d’alto rango nella capitale.

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Crescendo, Kaguya diventa una ragazza bellissima e corteggiata persino dall’imperatore del Giappone. Ma come Heidi anela solo alla libertà nel villaggio fra i monti circondata dagli amici e con un giovane povero, Sutemaru, di cui è innamorata. E come Penelope con i Proci, inventa mille sfide per tenere occupati i suoi nobili pretendenti e per non doversi sposare…

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Nella capitale, Kaguya riceve l’educazione di una ragazza nobile di epoca Heian. Ai bambini che vedranno La storia della principessa splendente, andrebbe spiegato che le donne dell’epoca si depilavano le sopracciglia, che ridisegnavano con la fuliggine, e si annerivano i denti: era l’ideale estetico femminile imperante. L’abbigliamento prevedeva la sovrapposizione di più kimono, i movimenti diventavano impacciati e lenti. La fanciulla d’alto rango, inoltre, doveva conoscere la calligrafia e saper suonare uno strumento musicale, come il koto.

Non voglio svelare il finale, ma non posso non dire che mi ha colpita. Date un’occhiata alle sembianze del presunto padre della principessa, che viene a riprendersela dalla Luna: ricorda qualcuno? Non credo che la scelta di Takahata sia stata casuale. Il finale verte sull’eterno conflitto fra l’umanità, fatta di sentimenti – di dolore e di gioia – e l’ideale filosofico buddhista, che prevede l’affrancarsi dalla tirannia delle passioni. Un concetto che i giapponesi hanno saputo fare proprio  – basti pensare allo Zen – ma che rimane, comunque, forestiero, venuto da un Paese lontano o, chissà, dalla Luna.

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