ACQUE SACRE: il pellegrinaggio alle sorgenti del Gange di Stephen Alter
Si intitola “Acque sacre” questo interessante racconto di viaggio di Stephen Alter, che ha ripercorso la strada dei pellegrini induisti verso le sorgenti del Gange nel 1999.
Non so a voi, ma a me spesso capita di comprare d’impulso un libro e di impilarlo in biblioteca in attesa del momento giusto per affrontarlo. Così è successo per “Acque sacre”: l’ho acquistato convinta di leggerlo durante un viaggio in India. Probabilmente non nella regione del Garhwal, girata a piedi da Stephen Alter, ma quanto meno in occasione del primo incontro con il grande fiume. Per comprendere meglio le ragioni che portano ogni giorno migliaia di induisti ad affollare le sue rive e a lavarsi nelle sue acque. In realtà, l’incontro con il maestoso Gange non c’è ancora stato, e il volume di Alter languiva da troppo tempo sullo scaffale. L’ho dunque letto facendo uno sforzo di immaginazione, rievocando con la memoria i paesaggi del Bhutan, del Nepal ma anche delle Alpi che ben conosco. E lasciandomi guidare dalla descrizione dettagliatissima (persino da un punto di vista zoologico e botanico) di Alter.
Due parole su di lui, Stephen Alter, sono doverose per comprendere questo libro. Figlio di missionari americani, nato e cresciuto in India, sposato con una donna indiana, vive negli Stati Uniti. Ma credo proprio che il suo cuore sia rimasto in India. Da portatrice di una doppia identità culturale, so bene che la terra in cui si nasce e si cresce è la tua terra, con la quale si stabilisce un legame viscerale. Anche se il sangue stabilisce la tua appartenenza a un’altra terra lontana. Stephen Alter compie questo pellegrinaggio da indiano fra gli indiani con la capacità di raccontarlo a noi occidentali da occidentale. È questa, a mio parere, la peculiarità di questo autore e della sua scrittura di viaggio. Alter indaga, interroga, riferisce, con un occhio da autoctono. Molti scrittori di viaggio hanno la capacità di insinuarsi fra la gente ma il loro sguardo resta per lo più distaccato e non empatico – come quello dell’antropologo o del cronista. Alter, invece, al di là delle apparenze, ha una comprensione da indiano.
Lottando contro il freddo, la fatica, il dolore fisico (gli capita anche di sentirsi poco bene), l’autore percorre il Char Dham Yatra come un autentico yatri (pellegrino) induista. Anzi, di più: perché gli indiani di oggi non camminano più per chilometri fra le montagne, rifugiandosi in ripari di fortuna in villaggi sperduti. Oggi i pellegrini si muovono in autobus, in treno, in aereo, in auto privata.
Se era così nel 1999, oggi il fenomeno sarà ancora più marcato. Alter invece cerca il contatto con la natura, cerca di cogliere le sensazioni dei pellegrini che nei secoli l’hanno preceduto, narra delle persone e delle etnie che incrocia nel suo lungo cammino. Seicento chilometri. Fino alla meta finale: Badrinath. Ma come sempre la meta ha meno importanza del viaggio in sé. «Posso solo dire che mi sembrava di avere dentro tutto quello che avevo visto, come se le cime innevate, le cascate, il ghiacciaio e il fiume, le rocce e i fiori fossero stati assimilati dal mio corpo».
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