AKIRA YOSHIMURA e i crimini di guerra dei giapponesi

Grazie a una traduzione francese (e come faremmo senza gli editori francesi? in italiano esce ben poco degli autori orientali!), ho scovato alla libreria Junku a Parigi il romanzo “La guerre des jours lontaines” (Toi hi no senso) di Akira Yoshimura (1927-2006), scrittore giapponese prolifico.

È un’opera del 1978. Quindi, Ben 33 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale. Non poco, per essere fra i primi romanzi che affrontano lo spinoso tema del coinvolgimento dei giapponesi nei crimini di guerra. Non si tratta di Nanchino, né delle altre atrocità commesse dall’esercizio imperiale in Asia. Il protagonista, Takuya Kiyohara, è un giovane ufficiale che si è macchiato dell’omicidio di un aviatore americano, abbattuto dalla contraerea nipponica e fatto prigioniero.

Siamo negli ultimi giorni prima della resa, nell’agosto del 1945. Gli americani bombardano a tappeto le città giapponesi (stessa tattica usata in Germania), gettano due atomiche su Hiroshima e Nagasaki e massacrano civili inermi per costringere l’imperatore alla pace. L’odio dei giapponesi cresce come l’onda di uno tsunami e si abbatte sui pochi prigionieri, tutti aviatori, che i giapponesi sono riusciti a catturare.

Prima della resa, i vertici dell’esercito danno ordine di eliminare i sopravvissuti decapitandoli con una spada da kendo. Un anno dopo, la giustizia militare americana è sulle tracce di Kiyohara e degli altri militari che hanno partecipato all’eccidio. La loro vendetta ora è un crimine di guerra e Takuya rischia di essere giustiziato. Il romanzo è il racconto claustrofobico di una fuga senza speranza, in un Paese ancora devastato dalla guerra e che faticosamente sta tentando di riprendersi, alla ricerca disperata di un nascondiglio sicuro.

Lo scrittore Akira Yoshimura.

Non ho ancora terminato la lettura, ma sono molto colpita dai sentimenti contrastanti che animano chi scrive. È giusto perseguitare e infliggere la morte a un militare che ha ucciso un altro militare, mentre i vincitori si sono permessi di sterminare migliaia di civili innocenti? Questa non è forse la giustizia dei vincitori, iniqua con i vinti? Yoshimura rende perfettamente il sentire comune giapponese, e ha il merito di accendere i riflettori u un tema difficile. Certo, il momento non era ancora maturo per parlare dei crimini sui civili compiuti dai giapponesi, ma Yoshimura osa comunque, ricordando nel romanzo gli esperimenti medici eseguiti sui piloti americani catturati, veri atti di tortura finalizzati alla morte della cavia.

Ciò che colpisce è l’incapacità di Kiyohara di comprendere la gravità del suo atto. I suoi capi scaricano vigliaccamente la responsabilità sugli ufficiali di grado inferiore come lui. Takuya fugge frastornato, autogiustificandosi: era la guerra, gli americani erano i nemici cattivi… Ma quando si uccide a sangue freddo un nemico inerme perché prigioniero, non è facile dimenticare. Anche quando si crede di aver compiuto un atto di giustizia. Il volto di quell’americano biondo e la sua voce saranno un ricordo ricorrente, che lo perseguiterà. Finché la situazione non cambierà, per lui e gli altri, grazie alla svolta della politica americana nei confronti del Giappone…

Una curiosità per chi ama il cinema giapponese: da un racconto di Akira Yoshimura,  Shȏei Imamura ha tratto “The Eel” (L’anguilla) con Kȏji Yakusho, Palma d’Oro a Cannes nel 1997.

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