ALI’ HA GLI OCCHI AZZURRI : un film per capire la “seconda generazione” degli immigrati
Presentato al Festival Internazionale del Film di Roma, esce domani nelle sale italiane Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi. Un docufilm che è migliore di molti film di pura fiction (con sceneggiature scadenti e inverosimili), ottima fotografia, attori non professionisti che interpretano se stessi con estrema naturalezza. È assolutamente da vedere.
Innanzitutto, perché nel suo essere scarno sa comunque emozionare. La trama è semplice: Nader è un sedicenne di origine egiziana, vive a Ostia e frequenta la scuola alberghiera. Stefano, coetaneo romano, è il suo migliore amico. La loro vita non è diversa da tanti adolescenti della loro età: studio (poco e di malavoglia), aria da bulletti, ragazze e discoteca. Ma Nader si è innamorato, seriamente. Lei è Brigitte, e lo ricambia. Entrambi sono innamorati dell’amore, dei primi batticuori della loro età. I genitori di lei lasciano fare, a patto che si rispetti qualche regola… Ma sono i genitori di lui il vero problema. Non possono accettare che il figlio abbia una fidanzata non musulmana. In Nader scatta la ribellione. Se ne va di casa e il film – che si svolge nell’arco di una settimana – racconta i guai in cui Nader e Stefano si cacceranno…
Potrebbe essere una storia qualsiasi di ragazzini, in una realtà di periferia. Come loro, ce ne sono a migliaia. Ma a fare la differenza è la crisi di identità di Nader. Il ragazzo è una seconda generazione: è nato in Italia, dopo che i suoi genitori si sono trasferiti dall’Egitto. Secondo la legge italiana, a 19 anni acquisirà automaticamente la cittadinanza e sarà un italiano a tutti gli effetti.
Ma l’identità non è solo una questione di passaporto. Nader non rifiuta le sue origini: parla arabo, ama la sua famiglia, va in moschea. Bigia qualche volta, come qualsiasi ragazzino. Ma è cresciuto in Italia e si sente anche italiano. I suoi amici sono italiani, parla italiano con lo stesso accento romanesco degli altri, e se non fosse per una pelle ambrata non si noterebbe che è arabo. È così integrato che i genitori di Brigitte (e la ragazza stessa) lo accettano come un ragazzino qualsiasi della zona.
Ma Nader è musulmano. Ci sono i suoi genitori a fiatargli sul collo e a ricordargli ogni istante le regole di comportamento di un buon musulmano.
“Loro non sono cattivi, sono diversi. Tu non puoi fare come ti pare”, gli dice in arabo la madre. “Tu mi hai fatto qua, e io seguo le leggi che stanno qua”, risponde il ragazzo. “Se sposi un’italiana io non entro più a casa tua”, ribatte la madre.
Alì ha gli occhi azzurri ha il pregio di parlarci con franchezza e di dirci che il pregiudizio non è univoco. Anche agli arabi chi è diverso non piace. Anzi, in questo caso nel quartiere multietnico in cui si svolge la vicenda i ragazzi italiani non sono affatto razzisti. Quando si cresce insieme, si gioca insieme, si va a scuola insieme – sembra raccontarci Giovannesi – l’odio fa più fatica a nascere. Il razzismo nasce dall’ignoranza dell’altro e dalle barriere poste dalla religione e dalla cultura. Sovrastrutture del mondo adulto, non dei bambini e dei ragazzi.
Nader-Alì indossa, ogni tanto, le lenti a contatto azzurre. Così i suoi occhi diventano come quelli del suo amico Stefano. Nader non si sforza di essere italiano, si sente italiano, pur conservando in sé un lato culturale arabo, dovuto all’educazione (che emerge di prepotenza quando l’amico corteggia la sorella).
Le contraddizioni di Alì-Nader sono interessanti, perché ci aiutano a capire come ci si sente quando si è in bilico fra due culture. Quando non si appartiene completamente né all’una, né all’altra. Essere una seconda, o una terza generazione ha questo aspetto drammatico, che si evidenzia maggiormente se c’è di mezzo la religione islamica. Perché l’Islam è totalizzante, e implica un’adesione completa. Non consente di fare le cose a metà. Le tre grandi religioni monoteiste sono identiche come approccio, e se il cristianesimo e parte dell’ebraismo non sono più così, è grazie all’Illuminismo e a una certa visione più laica della vita. Non ammessa dall’Islam.
Da qui le enormi difficoltà a integrare/convivere con l’immigrazione di religione musulmana. Cosa deve fare Nader? Chi può dirlo: la risposta è nella sua coscienza, sta a lui decidere fino a che punto è disposto a recidere il legame con la sua comunità d’origine per vivere da italiano, per amare la ragazza che ha scelto. Un compito tutt’altro che facile per chi ha un background culturale che attribuisce un peso enorme alla famiglia. Un amico inglese, adulto, una volta mi diceva che sentiva i suoi genitori una volta all’anno, al telefono. Non era un mostro. Nel mondo in cui è cresciuto, ciò è assolutamente normale. Ma nella cultura di Nader il rispetto per la famiglia è uno dei cardini della vita sociale dell’individuo. Come si può vivere “scollegati” dalla propria famiglia? Il singolo non esiste senza il gruppo.
Il dilemma di Nader è quello di tanti ragazzi nati qui, in Europa. Bisognerebbe che trovassero una terza via, che consenta loro di essere in pace con se stessi, nel rispetto della propria doppia identità. Le seconde e terze generazioni in Francia, Germania e Inghilterra – dove l’immigrazione è fenomeno meno recente – non sono riuscite a elaborarla. Ma è un problema che esige risposte, perché anche questi ragazzi sono il futuro dell’Europa. E dell’Italia.