I miei preferiti dal Far East Film Festival 13 – BUDDHA MOUNTAIN
Peccato che la regista Li Yu non sia potuta venire a Udine, al Far East Film Festival. Il suo ultimo film Buddha Mountain offre interessanti spunti di riflessione e il pubblico e la stampa avrebbero di sicuro gradito la possibilità di incontrarla.
Ringraziamo comunque Sabrina Baracetti, presidente del Festival, per essere riuscita a portare in Italia “Buddha Mountain”, che è uscito sugli schermi cinesi pochi mesi fa, come abbiamo detto.
La trama non è particolarmente significativa. Tre ventenni – Nan Feng, Ding Bo e Fei Zao – vivono a Chengdu. La loro vita non sembra seguire un progetto o dei sogni: Fei Zao detto Fatso (Fei Long) è obeso e bulimico, il bel Ding Bo (l’attore Chen Bolin) è in rotta con il padre che si è risposato alla morte della madre e vive di lavoretti precari, Nan Feng (Fan Bingbing, stupenda anche quando recita la parte di una disadattata) è partita dal suo paese e fa la cantante ma per uno stupido incidente è licenziata.
Nan Feng è segretamente innamorata di Ding Bo, che sembra ricambiare ma non osa esprimere i suoi sentimenti. Fatso è in qualche modo il loro protegé. Oggetto di bullismo per il suo aspetto fisico, è difeso dagli altri due.
Questo improbabile trio, alla deriva nella vita in un momento in cui dovrebbero vivere il massimo della progettualità e dell’entusiasmo, affitta due stanze presso una vedova, la cantante lirica in pensione Chang Yueqin (Sylvia Chang).
A questo punto, l’asse del film si sposta sulla relazione dei tre ragazzi con la donna, che parte all’insegna della conflittualità generazionale, ma che gradualmente si stempera e si tramuta in un’amicizia. La differenza d’età finisce per ispirare sentimenti materni nella burbera vedova, che ha perso il suo unico figlio in un incidente, e un desiderio di compiacerla da parte soprattutto di Nan Feng e Ding Bo, che sentono il peso di figure genitoriali lontane e assenti.
L’incertezza del futuro, l’assenza di stimoli e curiosità porta il trio a vagare spesso lungo le linee ferroviarie, a salire sui vagoni dei treni merci per provare l’ebbrezza del viaggio come metafora di una libertà che hanno ma non sanno, o non possono, usare. Il tutto nello scenario di una natura rigogliosa ma cupa, profondamente cupa, che mette angoscia e contribuisce a rafforzare un sentimento di disagio, anche nello spettatore.
La vedova Chang, che cerca di dimenticare il suo passato, verrà trascinata dai ragazzi nei loro vagabondaggi. Fino al tragico epilogo, proprio quando sembra che la donna sia finalmente uscita dalla prigione dei ricordi in cui si è volontariamente reclusa.
Non è un film allegro, “Buddha Mountain”. E non è neppure un film all’insegna della speranza. Li Yu – che è anche sceneggiatrice con Fang Li – ci racconta dello spaesamento delle giovani generazioni in una Cina che cambia troppo velocemente, dove a fronte di una ristretta frangia di giovani rampanti e di successo (un po’ come i nostri yuppies degli anni Ottanta) c’è un mare di giovani confusi, alla ricerca di un’identità, desiderosi di rompere con il vissuto delle generazioni precedenti ma incapaci di trovare una propria strada. In un Paese dove l’ideologia dominante è sempre più quella del denaro e i valori – sembra dirci Li Yu – sono avvolti nella nebbia.
Accostare a questa generazione la figura interpretata da Sylvia Chang rende ancor più stridente la rottura fra passato e presente. La Chang, con i suoi valori piccolo borghesi – il suo attaccamento agli oggetti – il legame con la famiglia e la passione per la musica, incarna una donna addolorata per aver perso i suoi appigli. Quegli appigli che i ragazzi non sembrano avere più, chiusi in una loro dimensione di analfabetismo emotivo, che li spinge a stare insieme quasi per disperazione. Come tre cuccioli nella tempesta che stanno vicini per riscaldarsi, senza sapere veramente in che direzione andare.