SEMPRE NEL POSTO SBAGLIATO di Edward Said
Sono reduce dalla lettura di Sempre nel posto sbagliato di Edward Said (1935-2003), critico letterario e docente universitario di origine palestinese trapiantato negli Stati Uniti, il cui saggio Orientalismo è una pietra miliare nell’analisi dell’immagine che gli occidentali hanno creato delle culture diverse dalla propria.
Casualmente, appena terminata la lettura, mi sono imbattuta nell’interessante contributo di Daniel Mendelsohn su The New Yorker, tradotto e pubblicato da Repubblica sabato scorso. Argomento: le autobiografie, i memoir…
Mendelsohn sostiene correttamente che questo genere, in passato degradato a una scrittura di serie B per l’esibizionismo e il narcisismo insito in essa, oggi vive una stagione d’oro. Complici le nuove tecnologie (Internet e i social network offrono un palcoscenico in passato inimmaginabile per “raccontarsi”, per rendere partecipi minuto per minuto gli altri della propria vita). E complice anche un certo cambiamento del costume legato alla televisione: il proliferare dei reality ci ha abituato a esibire ogni futilità del privato, anche la più insignificante, come fatto degno di nota.
C’è un punto d’incontro fra i reality e il memoir: come le immagini ci mostrano una “persona vera” che interagisce in situazioni create ad arte dagli autori, senza necessariamente mostrare il proprio vero “Io”, ma interpretando il personaggio che si è cucita addosso, così nel memoir l’autore filtra il proprio vissuto e lo racconta manipolandolo, evidenziando aspetti gratificanti e narcisistici. E’ tutta qui la differenza con la biografia: il biografo esprime un punto di vista sicuramente personalistico, ma che cerca di ricostruire con l’oggettività dell’osservatore esterno la vita altrui (ovviamente quando il biografo non è mosso da preconcetti demolitori sul personaggio che studia). E se è un bravo storico, incrocerà fonti diverse, che avvallino l’oggettività di una determinata affermazione, tentando di accostarsi il più possibile alla verità.
Eppure, quando l’autore è geniale, il memoir ammalia molto di più il lettore. Con un fascino quasi voyeristico, perché regala l’illusione di essere ammessi al salotto buono del personaggio che magari si ammira. E’ come se l’autore ci concedesse il privilegio di condividere i suoi segreti più intimi. E’ innegabile che ciò può emozionare. Per lo stesso meccanismo per cui il pubblico televisivo dei reality si emoziona innanzi alle vicende amorose, agli screzi e alle disavventure dei protagonisti dello show, ai quali si sente legato in un clima di familiarità grazie all’immediatezza del coinvolgimento visivo. Con un testo scritto, ovviamente, è tutto più cerebrale.
E tornando a Said, ho amato quest’autobiografia perché ha il pregio di volere – e di riuscire – a delineare, attraverso i suoi anni formativi, le vicissitudini di una famiglia borghese, palestinese e cristiana, di fronte allo scorrere della Storia che, con la naqba, condanna i palestinesi all’esilio definitivo e a essere discriminati persino dai fratelli arabi. Certo, non manca il compiacimento narrativo nel rievocare un mondo di privilegiati al quale l’autore ha avuto la fortuna di appartenere. Ma non è molto diverso da quanto anche altri scrittori, in romanzi di fortissima ispirazione autobiografica, sono riusciti a fare. Un esempio: André Aciman in Ultima notte ad Alessandria. D’altronde, è una tentazione troppo forte quanto si racconta di se stessi e della propria famiglia, sia scegliendo lo stile più secco da memoir, sia romanzando gli eventi.
Certo, nell’analisi del rapporto con la madre, il padre e le sorelle Said sembra sedersi sul lettino dello psicanalista (cosa che peraltro è evidente che ha fatto!). Sono i passaggi del libro in cui il lettore si sente più voyeur. Provando, magari, quel disagio che a volte si vive quando un perfetto sconosciuto, in una conversazione casuale, decide di condividere con voi un fatto troppo personale, che implicherebbe un livello di confidenza e di conoscenza interpersonale di differente profondità.
In questo voler sbandierare a viva forza la propria intimità, la nostra società ha codificato un processo di de-costruzione della verità, che è filtrata, ri-costruita e proposta nella versione più consona a chi si racconta. E’ il rischio insito in ogni autobiografia, una formula che già dal Settecento – accanto all’entusiasmo – ha suscitato diffidenza, accuse di opportunismo e superficialità.
Cara Maria Tatsos,
il discorso sulle biografie, e ancor più le autobiografie, mi affascina da diverso tempo.
In particolare sono attratta dalle autobiografie di donne, che aprono un ampio e complesso discorso sulle identità per me appassionante. Tra quelle che conosco, citerei Leni Riffensteil, Alma Maler, la Gugghenaim.
Le sarei molto grata se avesse la pazienza di segnalarmi qualche altro testo del genere.
Cordiali saluti,
Valentina.
Cara Valentina,
Grazie per il tuo commento. Ti suggerisco un libro che non ho ancora letto (è appena uscito) ma che vorrei leggere, perché mi sembra interessante. È la biografia della scrittrice Patricia Highsmith, che ha avuto una vita decisamente fuori dall’ordinario. Ti giro il link al libro sul sito della casa editrice Alet, che lo pubblica: http://www.aletedizioni.it/catalogo/dettagli.asp?ISBN=978-88-7520-108-1