VIVIANE, storia di un divorzio in Israele
Viviane (titolo orinale : Gett – The trial of Viviane Amsalem, al cinema dal 27 novembre) dei fratelli Ronit e Shlomi Elkabetz è un film sorprendente. Per quasi due ore, ci mostra, come se fossimo a Un giorno in pretura, una lunga serie di udienze innanzi a un tribunale rabbinico. Viviane Ansalem, sposa e madre, cita il marito Elisha, perché non vuole concederle il divorzio. Non c’è una storia di violenza domestica, né di tradimenti: semplicemente, la coppia non si ama più e la donna vuole tornare a essere libera.
In Israele oggi vivono 700 mila ultraortodossi, gli haredim, che rappresentano un 10 per cento della popolazione in rapida crescita. Il cinema israeliano ha già dedicato varie storie alla loro vita (uno per tutti: Kadosh di Amos Gitai), ma non lasciatevi ingannare, il film Viviane non c’entra nulla con l’estremismo religioso. Racconta la storia di una famiglia normale, mediamente religiosa, che ha scelto di sposarsi, e non di convivere. «In Israele, ancora oggi non esiste il matrimonio civile e vige solo la legge religiosa, che sancisce che soltanto il marito può concedere la separazione», spiegano i due registi. «Viviane, invece, vuole poter contare sulla legge per ottenere il riconoscimento di quello che ritiene essere un suo diritto». Nasce così un tira e molla infinito, con una pletora di testimoni e udienze estenuanti e spalmate su vari anni, di fronte a un tribunale rabbinico che, comunque, parteggia per il marito e ritiene di dover fare il possibile per salvare la famiglia, costi quel costi, calpestando anche i legittimi desideri di uno dei coniugi.
Mi ha davvero stupito scoprire che un Paese come Israele, nato grazie a un movimento laico e di ispirazione socialista come il sionismo, non abbia mai emanato una legge che consenta il matrimonio civile. Naturalmente, come ovunque, esisteranno coppie sposate e di buon senso, che giungono al divorzio di comune accordo, risparmiandosi le sofferenze subite da Viviane, il cui personaggio è indubbiamente ispirato – su ammissione dei fratelli Elkabetz – a persone reali. Immagino che esista altresì la possibilità di convivere, senza alcun problema. Resta il fatto che quando se si sceglie il matrimonio e il legame si spezza, aprendo la porta alla conflittualità, uscirne può diventare molto complicato, come mostra questo film.
In Italia il matrimonio civile è nato con lo Stato unitario, nel 1866. Ci sono voluti oltre cent’anni per giungere, nel 1974, a consentire il divorzio. È evidente che in un Paese come Israele, dove la religione è parte fondativa dell’identità dell’individuo come ebreo, è un passo più difficile. «Una donna che vive al di fuori del domicilio coniugale non potrà mai ricostruirsi una famiglia, gli eventuali figli nati fuori dal matrimonio avrebbero la stato di “bastardi”», ricordano i due registi. Insomma, finché il marito non concede il divorzio, la donna rimane sua prigioniera. Può andarsene, ma rifarsi una vita diventa impossibile. È forse ora che qualcosa cambi, come suggerisce questo interessante film.
Ronit Elkabetz, oltre che regista e sceneggiatrice, interpreta magistralmente Viviane. I suoi silenzi e i suoi sguardi carichi di sofferenza e di voglia di rivalsa, sono più eloquenti delle tante parole pronunciate nell’aula del tribunale.