SHIN DONG-HYUK, nato in un lager nordcoreano e fuggito
Su Elle di novembre, a pag. 128, c’è una pagina dedicata a Shin Dong-hyuk, il giovane nordcoreano nato in un lager del regime della famiglia Kim e unica persona al mondo a essere riuscita a fuggirne.
Ho avuto l’opportunità di intervistarlo a Torino, in occasione della presentazione del libro scritto da un giornalista americano sulla sua vicenda. Confesso di aver sofferto ad ascoltare le sue parole e soprattutto a immaginarmi come può sentirsi una persona, che ha conosciuto solo botte, vessazioni e lavoro forzato fin dalla nascita, a trovarsi di colpo catapultata nel mondo libero. Come Shin stesso mi ha detto, anche se ormai è libero da diversi anni, non si è ancora abituato a una vita “normale”. Il lager è una società distopica, degna del peggior incubo mai concepito da uno scrittore di fantascienza, dove i bambini vengono messi al mondo per essere futuri schiavi e lavoratori forzati, e dove la delazione dei propri familiari è la regola per salvarsi la pelle. I minori subiscono un indottrinamento che è un vero e proprio lavaggio del cervello, che li abitua a sentirsi colpevoli per essere figli di “nemici del popolo”, un’onta che solo in parte è riscattabile diventando spie per conto delle guardie, cioè aguzzini dei propri familiari. Shin ha vissuto tutto questo sulla propria pelle. È stato torturato, e il suo corpo ne reca ancora i segni. E a un certo punto ha capito di dover scappare, in quel mondo che non aveva mai visto, fuori dal recinto elettrificato del lager. Non l’ha fatto per eroismo – così mi ha detto – né per anelito alla libertà e ai propri diritti. Aveva semplicemente fame.
Per Elle, Shin ha raccontato come ci sente a convivere con il peso della colpa di aver tradito i suoi familiari e come ha scoperto, con la libertà, l’esistenza dei sentimenti in ogni essere umano. Un’educazione sentimentale che è come un’epifania, perché l’amicizia o l’amore nel lager nordcoreano sono banditi.