APPARTAMENTO AD ATENE: quando c’è un nazista a casa tua…
Uscirà il 14 settembre prossimo questo film psicologicamente intenso e cupissimo, intitolato “Appartamento ad Atene”, con la regia di Ruggero Dipaola.
Tratto dal romanzo omonimo di Glenway Wescott, pubblicato nel 1945, racconta la storia di una convivenza forzata fra una famiglia ateniese, quella dell’editore Helianos (Gerasimos Skiadaresis), i suoi due figli e la moglie (Laura Morante), con un capitano nazista, Kalter (Richard Sammel), che sceglie la loro casa come abitazione durante la sua permanenza ad Atene, occupata dai tedeschi.
Il film, come il romanzo, non è una testimonianza di guerra, quanto uno spaccato sulle relazioni umane: il rapporto vittima-carnefice, l’esercizio di un potere, l’accondiscendenza, la ribellione soffocata, l’amicizia.
L’americano Wescott (1901-1987) scrive in tempo di guerra e non è morbido con i tedeschi. Kalter è un’anima dannata, incapace di un riscatto morale, che trascina nel baratro chi gli accorda un briciolo di umana fiducia.
La storia è decisamente romanzesca, anche se non inverosimile. Sì, può esserci stato un ufficiale nazista che ha voluto interagire con qualcuno degli abitanti di un territorio occupato, magari in nome di un suo background culturale personale. Ma il lavaggio del cervello ideologico era tale che questa possibilità era piuttosto improbabile e rara. La razza ariana non doveva avere rapporti con i popoli inferiori. I padroni non fraternizzano con gli schiavi.
Nel 1942, quando i tedeschi occuparono il nord della Grecia, la famiglia dei miei nonni materni fu costretta a ospitare, come nel film “Appartamento ad Atene”, un ufficiale nazista per un paio di mesi. I ricordi di mia zia sono vaghi, perché era bambina. Il nazista aveva requisito la camera da letto più spaziosa e confortevole della casa, e si limitava a dormirci. Partiva all’alba molto presto e rientrava tardi. Non salutava e non aveva alcun tipo di contatto con i miei nonni e con i loro bambini. Contrariamente a Kalter, nemmeno un parola. E soprattutto nessun pasto condiviso: il nazista pranzava e cenava coi commilitoni, non faceva neppure colazione a casa.
I bambini avevano ordine di non disturbarlo. E da parte sua, neanche uno sguardo. Eppure, soprattutto mia madre e mio zio erano due piccoli biondi con gli occhi azzurri, non così diversi fisicamente dai bambini che poteva aver lasciato a casa… La macchina da guerra nazista non ammetteva emozioni, e i due bimbi di casa non ebbero nessuna attenzione dall’ufficiale. Tre anni dopo, con l’arrivo degli alleati, mia madre – ormai un po’ più grandicella – si conquistò la simpatia di un soldato britannico, al quale ricordava la sua bambina… Divenne il suo fornitore di caramelle, per il periodo in cui rimase in zona. Le mostrò anche la foto della sua bambina a casa, per farle capire che le assomigliava. La disciplina militare alleata non aveva cancellato nei soldati la capacità di provare emozioni.
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