Arabia Saudita, il Paese delle MOGLI SCHIAVE
La Storia ci insegna che i popoli arabi hanno attivamente partecipato al traffico di schiavi. A qualche maschio saudita il vizio deve essere rimasto. E in assenza di inservienti filippini o pakistani da maltrattare, restano sempre le donne. Le mogli che, per alcuni maschi sauditi, evidentemente, non sono esseri umani, ma oggetti, proprietà di cui disporre a proprio piacimento.
Sono inorridita leggendo l’ultimo post di Saudiwoman, che molto gentilmente ci mette a disposizione in inglese alcune notizie tratte dalla stampa locale.
Storia numero 1. È la testimonianza della dottoressa Badria al Bishr sul quotidiano Al Hayat. Racconta di una donna abusata dal marito per anni, prima del divorzio – che deve essere stato un’autentica liberazione (anche se le sorti di una divorziata in Arabia Saudita non sono rosee). Una volta il marito l’ha chiusa in casa ed è partito per un viaggio. La povera donna non aveva neppure cibo a sufficienza e se l’è cavata grazie all’aiuto provvidenziale di un vicino di casa, che è riuscito a introdurre attraverso la finestrella del bagno un pasto del Kentucky Fried Chicken. Beh, qualche maschio gentile esiste ancora, direte voi. Leggete il seguito.
Storia numero 2. Il marito violento e abusatore, stavolta, è più crudele del precedente. Rinchiude la moglie in bagno, in cui entra solo per urinarle addosso. Non lo fareste neanche con il vostro cane. La povera donna riesce a scappare e conciata come potete immaginare si reca dalla polizia. Che la lascia ad attendere per per strada. Perché era sporca, direte voi. No: perché non era “accompagnata da un guardiano maschio”, ossia il marito abusatore, o il padre (totalmente disinteressato alle sorti della figlia).
Possibile che i sauditi abbiano tutti dei cuori di pietra? Perché il vicino di casa della Storia 1 non è andato alla polizia per denunciare cosa stava accadendo? Perché la polizia non fa nulla? La risposta ce la dà la blogger Saudiwoman, nella Storia numero 3. È la vicenda di una donna canadese sposata a un cittadino saudita e trasferitasi nella terra santa di Maometto. Errore di dimensioni colossali! Il copione è praticamente lo stesso: il marito abusatore si ritiene in diritto di chiudere in casa la moglie e affamarla. Tanto è “roba sua”. La povera canadese riesce fortunosamente a mandare un bigliettino a due donne saudite, in cui chiede aiuto. Le due certo non vanno dalla polizia, ma al supermercato e riescono a farle avere un po’ di cibo. Al suo rientro, il marito bastardo va su tutte le furie. Scopre l’identità delle donne e le denuncia per invasione della privacy.
Imparate questa parola: takhbib. Saudiwoman ci spiega che indica il reato di “corruzione di una donna e di istigazione al odiare il marito”. Le due povere saudite si sono viste appioppare 10 mesi di carcere e una proibizione a viaggiare – come se già potessero andare chissà dove, da sole – di 2 anni!!! Il takhbib è un fossile giuridico, proveniente dall’era in cui esisteva ancora la schiavitù e occorreva punire chi aiutava uno schiavo a scappare. La proprietà va tutelata. Una curiosità: il bigliettino era scritto in francese, e le saudite non hanno capito niente. Ma, a quanto pare, conoscendo la mentalità maschile nel loro Paese, in realtà hanno capito tutto. La povera canadese, dal canto suo, ha spiegato che non voleva affatto scappare. Semplicemente, non le andava di morire di fame.
Dunque per le donne saudite la schiavitù è ancora in vigore. Non è solo questione di poter uscire da sole, di partecipare a competizioni sportive e di guidare un’auto – scene di ordinaria normalità, qui proibite – ma di VIVERE. Sono in gioco i diritti umani fondamentali di ogni essere umano: quello di non essere torturato, di non essere lasciato a morire di fame, di non subire trattamenti inumani e degradanti (come definireste uno che vi urina addosso?). Povere saudite: possono solo sperare di incappare in un marito – ovviamente scelto dalla famiglia, in primis dal padre – decente e caritatevole. Altrimenti, per loro si schiudono le porte dell’inferno.