IL MESTIERE DI TRADURRE – Intervista a Lucia Regola

Questo post presenta la prima di una serie di brevi interviste con alcuni traduttori letterari italiani, alla scoperta di un mestiere spesso in ombra. Chi è il traduttore letterario? Quale percorso professionale ha compiuto? Non dimentichiamo, infatti, che il suo è un lavoro che implica la conoscenza linguistica ma anche la capacità di saper scrivere, di ricreare il messaggio che l’autore esprime non solo con la storia che narra, ma anche con le scelte lessicali e stilistiche. Insomma, se un romanzo di un autore straniero ci entusiasma, è anche grazie all’abilità di chi l’ha tradotto.

Lucia Regola vive nella campagna toscana ed è docente di inglese. Parla perfettamente – e traduce – anche il francese, ma il suo asso nella manica è la conoscenza di due lingue eccezionalmente difficili: l’hindi e il cinese. Laureata alla Ca’ Foscari di Venezia, Lucia ha vissuto e ha approfondito i suoi studi in entrambi i Paesi. Traduce in prevalenza dal cinese: ha esordito nel 1996 con Lu Xun, un autore che è in Cina è un classico. La sua ultima fatica, uscita qualche mese fa in libreria per la casa editrice romana Nottetempo, è Beijing Story. Un’opera scritta nel 1996 da un autore sconosciuto che si firma Tongzhi e ha suscitato grande scalpore per i temi trattati: amore e sesso nel mondo gay a Pechino. Le autorità cinesi l’hanno immediatamente censurato, ma il testo ha varcato le frontiere cinesi, diventando un caso.

1- “Beijing Story” è un romanzo contemporaneo, diffuso in Cina su Internet. Quali difficoltà hai incontrato nella traduzione?

Il fatto che Beijing Story sia una internet novel non ha presentato particolari problemi, né per quanto riguarda il reperimento del testo originale né per la traduzione. L’idea di pubblicare il libro è nata dalla visione del film Lan Yu, che è tratto dal romanzo e ne ripropone fedelmente la trama. Una volta deciso di tradurre il libro, non è stato difficile trovarlo su un sito di Hong Kong non soggetto alla rigida censura del governo cinese.
Beijing Story è scritto in una lingua semplice e immediata, anche se non priva di una sua eleganza, e fa ampio uso di dialoghi molto credibili, ricchi di espressioni tratte dal linguaggio quotidiano e informale. Non è stato quindi particolarmente difficile tradurlo in italiano. La preoccupazione maggiore è stata quella di mantenere la freschezza e l’autenticità che il romanzo possiede nella versione originale.

2-  L’autore, Tongzhi, è sconosciuto. Ha un significato particolare lo pseudonimo scelto in cinese? Il tuo lavoro di traduttrice ti ha consentito di venire, in via riservata, a contatto con lui?

Tongzhi significa “compagno” ed è stato per molto tempo l’appellativo più usato nella Cina comunista. Fino agli anni Ottanta del Novecento in Cina non vi erano signori e signorine, dottori e ingegneri: tutti, maschi e femmine, erano soltanto tongzhi. Poi il movimento omosessuale si è impadronito del termine, che oggi indica gay, lesbiche e transessuali.
Non ho avuto modo di capire chi possa celarsi dietro questo pseudonimo. Però, a giudicare dalla capacità con cui riesce a mantenere vivo il ritmo e l’interesse del lettore, dall’uso sapiente della lingua e dall’equilibrio che caratterizza l’architettura del romanzo, l’autore di Beijing Story è certamente uno scrittore nel vero senso della parola.

3 – A volte tra autore e traduttore si creano rapporti di conoscenza e perfino di amicizia. A te è capitato? Aiuta, secondo te, conoscere l’autore che si traduce?

Mi è capitato di incontrare brevemente un autore cinese di cui avevo tradotto un romanzo, ma solo dopo la pubblicazione del libro in Italia. Nel vederlo, ho avuto la precisa sensazione di conoscerlo bene, perché ogni autore trasferisce tanta parte di sé nella propria opera e chi traduce, passando tanto tempo su un testo ad analizzarlo nei minimi dettagli, riesce forse più di chiunque altro a carpire tanti segreti dell’autore. Tuttavia non credo che la conoscenza diretta dell’autore sia veramente utile a chi traduce, poiché tutto ciò di cui il traduttore ha bisogno è già a disposizione nel testo che ha davanti a sé, non gli serve altro. Anzi, forse in certi casi la conoscenza diretta dell’autore potrebbe addirittura sviare il traduttore, spingendolo a vedere riflesso nell’opera qualcosa che in realtà appartiene soltanto all’uomo  e non al romanziere.

4 –  Tradurre da una lingua che ha una struttura così diversa da quelle occidentali implica la conoscenza da parte del traduttore di schemi mentali ed espressivi differenti e la capacità di trasporre non solo le parole, ma un’intero modo di pensare, nella propria lingua madre. Qual è la tua esperienza con il cinese?

Tradurre dal cinese significa trovarsi spesso costretti a rovesciare completamente una frase smontandone l’architettura originaria e questo naturalmente pone qualche problema al traduttore che abbia a cuore il principio della fedeltà (non sempre tenuto in grande considerazione nelle traduzioni di opere cinesi in lingue occidentali) e nutra al tempo stesso una preoccupazione stilistica. Bisogna costantemente cercare un punto di equilibrio fra questi due poli, pur con la consapevolezza che vi sono cose che in traduzione vanno irrimediabilmente perdute: nel caso del cinese, per esempio, non è possibile rendere l’aspetto pittorico della scrittura ideografica. Si può invece cercare di conservare il ritmo e il tono della narrazione ed è proprio su questi aspetti che concentro sempre la mia attenzione.
Naturalmente è importante conoscere le strutture mentali tipiche della cultura in questione, ma mi pare ugualmente essenziale cercare sempre punti di contatto a cui potersi ancorare nella cultura della lingua d’arrivo, per non cadere nella trappola di un esotismo esasperato: in fondo i bisogni e i sentimenti umani sono gli stessi a tutte le latitudini e in ogni tempo.

 

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