Profughi e poveri in un mondo DISEGUALE

Milano, una mattina di gennaio 2021, piazza Cairoli. Il mio sguardo si ferma su una donna anziana, che chiede la carità, in silenzio. Ha l’aria di essere italiana. C’è qualcosa che istintivamente mi sembra fuori luogo, in ciò che vedo. Osservo meglio. La signora ha i capelli bianchi ben curati e puliti, è vestita con un cappottino nero lindo. Non rientra nel cliché della senzatetto, né della rom, e neppure dell’immigrata in difficoltà. È proprio l’aspetto esteriore che non mi torna: sembra un’anziana “normale”, che non ha bisogno di domandare aiuto.

Ho appena finito di leggere Io sono confine dell’antropologo iraniano Shahram Khosravi (Eleuthera, 2019) e mi tornano in mente le sue parole. L’apparenza esteriore dell’altro condiziona pesantemente il nostro giudizio. È quanto accade anche con i richiedenti asilo. Khosravi racconta il fenomeno della “profughizzazione”: per essere accettato come profugo, i segni distintivi devono essere dolore e sofferenza. «Un profugo “autentico” deve quindi apparire travagliato, dimesso, sofferente, serio e, naturalmente, triste. (…) Un profugo felice, benvestito e attraente è una contraddizione in termini. Non sta interpretando la parte che gli è stata assegnata».

Immigrati in Tracia. Foto Ggia, Creative Commons.

Sono involontariamente caduta nella stessa trappola mentale che condiziona il giudizio degli ispettori di frontiera sui richiedenti asilo. La signora che ho visto non rispondeva affatto ai cliché del mendicante. Troppo pulita, troppo benvestita. Quest’immagine mi è apparsa di primo acchito stridente, contraddittoria.

In questi tempi di Covid e di crisi economica che picchia duro, però, anche una persona che normalmente condurrebbe una vita frugale e dignitosa, senza alcun lusso e mantenendosi lungo il labile confine della normalità, rischia di cadere nel baratro. L’ultimo rapporto sulla povertà e sull’esclusione sociale in Italia della Caritas fotografa proprio questa situazione. Il 54,4 % delle persone che hanno chiesto aiuto nel 2020 sono donne e nell’85,9 % dei casi non sono senzatetto, la casa ce l’hanno. E il 52% sono italiani (nel 2019 lo erano il 47,9%).

Ero di corsa, e non mi sono fermata a parlare con l’anziana che chiedeva l’elemosina. Per non pensare sempre al peggio, mi sono detta che forse la signora è mitomane. Ho letto storie di gente che frugava nella spazzatura, e poi alla loro morte si è scoperto che avevano conti in banca milionari. Diciamo che me la racconto così per sentirmi meno in colpa come membro di una società che permette l’esistenza della povertà.

Resta da dire che la crisi che stiamo vivendo non colpisce solo gli anziani. Anzi, paradossalmente a volte loro sopravvivono meglio di molti giovani precari che hanno perso il lavoro: i nonni hanno un’entrata fissa – la pensione – i giovani con i contratti a termine non rinnovati sopravvivono solo grazie ai soldi dei genitori. Poi ci sono i cinquantenni e sessantenni rimasti senza lavoro, che nessuno ha voglia di assumere, al di là dell’emergenza Covid. Troppo giovani per la pensione, troppo vecchi per il mondo del lavoro. E i liberi professionisti “intellettuali”, spesso già sottopagati in tempi ordinari, che non godono di cassa integrazione e sussidi che spettano ai dipendenti. La crisi pandemica ha accentuato le divisioni che caratterizzavano già prima una società sempre più diseguale.

«Gli stranieri hanno diritto all’ospitalità “in quanto abitanti della Terra”. (…)  un diritto “cosmopolitico”, il diritto alla protezione e alla sicurezza», scrive Khosravi riportando il pensiero di Immanuel Kant (1795). In principio, sono d’accordo. Bisogna proteggere chi fugge dalla violenza, dalla guerra, da una miseria infinita. Lo penso di fronte alle immagini dei pakistani e degli afghani in Bosnia, con le ciabatte di plastica a piedi nudi nella neve. E il mio cuore si lacera, perché allo stato attuale, con la crisi in corso, questa Europa non è in grado di accogliere e offrire delle opportunità a questi giovani, esattamente come in molti casi non ne offre neppure ai suoi figli. E per non ricadere nel pessimismo più cupo, per un attimo cancello dalla mia mente il pensiero di cosa saranno i prossimi mesi e il post pandemia. Cerco di vivere al presente, come i bambini. Mi dò tregua, ma quest’amara consapevolezza rimane.

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