THE GREAT PASSAGE: il più giapponese dei film giapponesi al WA! Japan Film Festival
Si è chiusa il 15 maggio la prima edizione nazionale di Wa! Japan Film Festival. Un’ottima selezione, perfetta per far riflettere sul Giappone d’oggi, sui contrasti generazionali, sui comportamenti e sulle scelte, condizionate da uno stile di vita apparentemente simile al nostro, ma poggiato su un background culturale spesso molto differente. Fra i vari film che ho visto, la palma del più giapponese in assoluto va a The Great Passage (Fune wo Amu) di Ishii Yuya. Uscito nel 2013 e basato sull’omonimo bestseller di Miura Shion, The Great Passage è stato candidato per il Giappone agli Oscar come Migliore film straniero, ma non è stato ammesso. Non mi sorprende affatto: non perché il film non meriti – al contrario, ottima regia, ottimo cast, 133 minuti che non annoiano – ma perché ha un unico difetto. È troppo giapponese per essere apprezzato da un pubblico internazionale che non conosce abbastanza il Giappone e il modo di essere dei giapponesi.
La trama intreccia più tematiche: il passaggio da giovane insicuro a uomo del protagonista, Majime Mitsuya (Matsuda Ryuhei), sul lavoro e nella vita personale; il ruolo delle donne nel mondo del lavoro; in ambito professionale, il senso del dovere e la devozione tributata allo svolgimento del proprio compito che diventa ossessione, tanto da fagocitare la vita – una scelta tipicamente giapponese. La storia si snoda in un arco temporale di quindici anni, dalla metà degli anni Novanta fino al 2009, ossia il tempo necessario per la realizzazione di un nuovo vocabolario della lingua giapponese della casa editrice Genbu, in linea con l’evoluzione della lingua (Ikiru jishou, si dice nel film: un vocabolario vivo). L’opus magnum viene denominato The Great Passage, appunto: un vocabolario in grado di traghettare la lingua giapponese dal XX al XXI secolo. Ma gli anni cambiano, la tecnologia avanza, e il reparto dizionari dovrà lottare duramente con l’editore per portare a termine il suo progetto, che rischia di avere costi troppo alti. L’uscita di scena di uno dei collaboratori senior impone di trovare un sostituto. Il candidato ideale è un giovane laureato in linguistica del reparto commerciale. Taciturno e imbranato, Majime Mitsuya è un pesce fuor d’acqua nelle relazioni umane. Fra le schede da compilare per il vocabolario, trova la sua autentica vocazione e diventa, nel tempo, il team leader del gruppo di lavoro. Ma prima di arrivare a questo traguardo Majime deve imparare a interagire con il mondo che lo circonda. L’amore bussa alla sua porta con le sembianze di Hayashi Kaguya (la bellissima Miyazaki Aoi), nipote dell’anziana affittacamere presso la quale vive. La ragazza è una sushi chef, esperta nel delicato compito del taglio del pesce, tipicamente maschile. Kaguya è attratta dall’imbranato Majime, che alla fine con l’aiuto della ragazza (e il sostegno dei colleghi, che si immischiano nella sua storia d’amore) riuscirà a dichiararsi. Il tempo passa, la lingua cambia velocemente grazie ai nuovi apporti giovanili e i redattori del vocabolario, dopo una lunga serie di revisioni, faranno una corsa contro il tempo per pubblicare finalmente il loro lavoro. Studenti universitari, collaboratori, consulenti vari pianteranno le tende giorno e notte nei minuscoli locali del reparto dizionari e lavoreranno con la tipica abnegazione giapponese, senza sosta, mangiando alla scrivania, dormendo sulla sedia per qualche ora, pur di riuscire a ultimare il loro compito. Alla fine, The Great Passage arriva al traguardo. A guastare la gioia della festa, l’assenza del suo ideatore e coordinatore, il caporedattore Matsumoto, nel frattempo deceduto per malattia, pochi giorni prima. Un end troppo happy non si addice a una storia giapponese.
Apparentemente, può sembrare una follia girare un film di 133 minuti sulla compilazione di un vocabolario. In realtà, la storia regge benissimo, perché intreccia tematiche differenti. La sfida principale, naturalmente, è la realizzazione del vocabolario, compito che finisce per diventare una ragione di vita per il silenzioso Majime, ossessionato dalla compilazione delle schede. La comparsa di Kaguya nella sua vita, però, mette in gioco un’energia nuova: quella dell’amore. “Koi”, ripete il protagonista, cercando di compilarne la scheda per mettere a fuoco meglio il suo problema: essersi innamorato. E qui si apre una parte del film molto giapponese, che verte sulla difficoltà di espressione dei sentimenti. Non di tutti, naturalmente: agli antipodi di Majime, c’è il disinvolto collega Nishioka, abile comunicatore, con le donne e sul lavoro. Il corteggiamento è esilarante: la povera Kaguya esprime la sua simpatia invitando Majime più volte a mangiare le sue pietanze e l’imbranato redattore le trangugia con la stessa passione con cui abbraccerebbe la ragazza, se solo avesse il coraggio. Ma dalla sua bocca escono solo timidi apprezzamenti sul cibo, così timidi che spingerebbero qualsiasi donna a desistere… Gli incoraggiamenti quasi materni di Kaguya e l’insistenza dei colleghi spingono Majime a dichiararsi per lettera. E qui succede il disastro: il colto e noioso redattore produce una missiva in stile corsivo, che la povera sushi chef non è in grado di decifrare. Per conoscere il contenuto, subirà l’umiliazione di farsela leggere dal suo capo. Furibonda, imporrà a Majime di dichiararsi a parole: come un adolescente perso, il giovane riuscirà a bisbigliare solo un “anata ga… suki desu”. Liberatorio. È una delle scene più divertenti del film. Un altro tema interessante che il film suggerisce marginalmente è quello della scelta professionale di Kaguya. Il ruolo di affettare il pesce per il sushi è tradizionalmente maschile, ma Kaguya si impegna con la stessa ostinazione di Majime con il suo vocabolario a riuscirci. Conosce tutto dei coltelli da usare, sa affilarli, è una fuoriclasse. Ma è sola, nuota controcorrente, come Majime. Forse questo loro essere diversi li avvicina e li fa innamorare. Kaguya e Majime incarnano due facce di una stessa medaglia, quella dell’amore per il proprio lavoro, del senso del dovere e della devozione all’obiettivo da raggiungere. È quell’etica samurai che permea la società giapponese e che non è mai del tutto morta. Non è propria solo di Majime, tutto il suo team la condivide, persino gli esterni che si aggiungono nella fase conclusiva del lavoro. Alla fine, il brutto anatroccolo è diventato un cigno: Majime è un professionista affermato e stimato. Grazie anche alla moglie, che pur mantenendo la sua attività, è sempre stata al suo fianco, anche nei momenti più duri dell’impresa del vocabolario. L’acme del romanticismo è nella frase finale di lui a lei: “Itsumo arigatou gozaimasu”, grazie di tutto. Vi aspettavate di più? Impossibile: non sarebbe giapponese.