AIDA e il massacro di Srebrenica

Si intitola “Quo vadis, Aida?” ed è un film che tutti dovremmo andare a vedere. Chi ha venti o trent’anni perché non c’era, o era troppo piccolo, nel 1995, e quindi poco sa di questa pagina orribile della storia recente europea. Chi ne ha di più, per rinfrescarsi la memoria: perché quando la guerra devastò la ex Jugoslavia, pochi si resero conto di cosa stava realmente accadendo, alle porte di casa nostra. In Europa, non in qualche staterello sperduto dell’Africa o in qualche repubblica delle banane governata da un dittatore prepotente. Nel luglio 1995, 8000 musulmani residenti a Srebrenica, nella Bosnia orientale, vennero trucidati dalle forze della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina del generale Ratko Mladić. Malgrado fossero sotto la protezione internazionale di un contingente olandese di caschi blu delle Nazioni Unite. La regista Jasmila Źbanić ha scelto di raccontarci cosa è accaduto attraverso una storia di fantasia, quella di Aida (l’ottima attrice Jasna Duričić), interprete dei soldati Onu, che invano cercherà di sfruttare il suo ruolo e le sue conoscenze per salvare il marito Nihad e i due figli ventenni. Aida lotterà come una leonessa per la vita dei suoi cuccioli contro un nemico più grande di lei. I serbi, che fingono di negoziare con i caschi blu, in realtà hanno già deciso di eliminare tutti i maschi musulmani di Srebrenica. Lasceranno vive solo donne e bambini. La loro logica criminale è quella di tutte le guerre più brutali: si uccidono gli uomini, si violentano le donne, costringendole a dare la vita a un figlio del nemico. Un’esperienza che equivale ad annientarle.

Aida potrà anche essere un personaggio di fantasia, ma è così verosimile da darci i brividi. Lo stesso vale per comparse che incarnano i bosniaci nella base dell’Onu: affamati, senza la possibilità di accedere a un bagno, ammassati come bestie al macello. Appesi a un esile filo di speranza, ossia che il resto del mondo – rappresentato dai caschi blu – mantenga la promessa di proteggerli. Non andrà così. Le esigue forze Onu, circondate dai serbi armati fino ai denti, sceglieranno di credere a Mladić, anche per salvarsi la pelle. A fine film, si esce dal cinema con tanti interrogativi. Cosa avremmo fatto noi, al posto degli olandesi? Come si può tornare a una vita normale, come succede ad Aida, che sopravvive alla guerra, incrociando per strada gli assassini della tua famiglia? Come si può superare l’odio e il desiderio di vendetta?

Sullo sfondo, per chi come me ha avuto modo di conoscere la Jugoslavia di Tito, rimane un altro, enorme interrogativo: come ha potuto succedere? Sono trent’anni che me lo chiedo. Oggi i nazionalismi più beceri ci spingono all’odio verso lo straniero, l’immigrato, chi è diverso da noi. Ovviamente è moralmente sbagliato, ma diventa paradossale quando l’odio si rivolge verso qualcuno che appartiene al tuo stesso popolo, e condivide la stessa lingua e cultura, ma ha soltanto un’altra religione. È quanto è successo in Bosnia. Per farcelo capire, la regista di “Quo vadis, Aida?” ha usato un’immagine eloquente: Aida ricorda una festa, poco prima della guerra, dove tutti ballano, mangiano, si divertono insieme. Musulmani e serbi di Srebrenica. Amici, vicini di casa, persino coppie miste. Perché questa era la realtà, prima di questo conflitto assurdo e del massacro, che è un’onta non solo per gli ex jugoslavi, ma per tutta l’Europa. È una violenza cieca che pensavamo di aver definitivamente archiviato dopo il 1945. Ecco perché bisogna conoscere la Storia. Ed ecco perché “Quo vadis, Aida?” va assolutamente visto.

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