Il coraggio di ricordare: l’esperienza di BOVANRITH THO NGUON
Iera sera, alla Casa della Cultura a Milano, si è tenuto il primo di due incontri dedicati alla Cambogia. Relatori l’indologa Marilia Albanese, direttore della sezione lombarda dell’Is.I.A.O., e Bovannrith Tho Nguon, medico microbiologo di origine cambogiana, residente da 30 anni in Italia, a Biella.
L’eccidio compiuto dai khmer rossi è fatto noto: sono circolati film, documentari, immagini, libri. Eppure, sempre è un ’emozione sentire la testimonianza di chi quegli eventi li ha vissuti, involontariamente, sulla propria pelle. Bovannrith – un nome stupendo, che significa “Oro splendente” – ha raccontato la sua storia in un libro, “Cercate l’Angkar”, scritto con Diego Siragusa. Ed il protagonista di un docu-film di Giovanni Donfrancesco, che l’ha seguito in un viaggio in Cambogia alla ricerca del fratello.
“Oro splendente” nel 1975 aveva a 13 anni. «Quando i khmer rossi sono arrivati in città, li abbiamo accolti come liberatori. Gli studenti simpatizzavano con loro», ha raccontato. Il sogno di un futuro diverso si è infranto in istante. «Siamo stati costretti a lasciare Phnom Penh, portando con noi pochissime cose. Ci avevano detto che saremmo rientrati nel giro di pochi giorni. Invece, quei pochi giorni sono diventati 4 anni. I miei genitori e alcuni miei fratelli sono morti di fame».
Il progetto folle di Pol Pot, come è noto, era di far tornare l’intero Paese all’agricoltura. Non dovevano esserci differenze sociali, perciò tutti erano costretti al lavoro nei campi. Da un giorno all’altro, il denaro fu abolito. «Mia nonna era ricca, possedeva piantagioni e denaro», ha detto Bovannrith Tho Nguon. «Ricordo ancora l’espressione del suo viso quando le hanno detto che il denaro, che lei aveva messo da parte con fatica, non valeva più nulla».
Era solo l’inizio di un incubo. Bovannrith Tho Nguon fu separato dai suoi genitori e intrupprto in una squadra di lavoro che costruiva dighe e canali. Tra l’altro, con scarsa efficienza progettuale: come ricorda Nguon, spesso si trovavano a costruire e a demolire. Solo i più forti sopravvivevano. Il cibo era scarso. Nella folle intenzione di dominare la natura, i khmer rossi commettevano una serie di errori. «Per esempio, trasformavano terreni da mais in terreni da riso. Così la loro economia fallì».
Non solo il Paese andò a gambe all’aria: due milioni di esseri umani furono eliminati fisicamente oppure morirono di stenti. Come i familiari di Bovannrith, che proprio in quegli anni decise di farsi chiamare Tho, “Vaso”: un nome meno altisonante, per evitare guai.
«Ho saputo della morte di mia madre da un compagno di lavoro, che mi disse che era stata seppellita in una fossa comune». Non era dato piangere, ribellarsi: si rischiava di pagare con la vita. La gente era rassegnata: lavorava e seguiva le istruzioni dell’Angkar. «Non si potevano portare occhiali, si era costretti a vestire di nero, con abiti semplici, e si girava scalzi. Dai 13 ai 17 anni, ho lavorato dall’alba a notte fonda, a volte anche con la luce della luna. L’unico giorno di riposo era dedicato all’ascolto dei discorsi politici dei capi».
Bovannrith Tho Nguon, come altri cambogiani, si è salvato grazie all’arrivo dei vietnamiti. È fuggito in Thailandia, al seguito di un gruppo khmer “buono” e lì ha conosciuto una dottoressa italiana della Caritas, che l’ha aiutato a venire nel nostro Paese, a riprendere gli studi, fino ad arruivare a laurearsi in Medicina.
La sua storia ha un happy end. Ma come lui stesso ha dichiarato “bisogna ricordare perché non capiti più”.
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