IL MESTIERE DI TRADURRE – Intervista a Maurizio Riotto

Se un libro può schiuderci le porte di un Paese lontano e poco conosciuto, nel caso della Corea e della sua produzione letteraria dobbiamo ringraziare il prof. Maurizio Riotto: è uno fra i pochi studiosi italiani ad aver tradotto numerose opere di autori coreani, antichi e moderni. Conosce  a fondo il Paese del Calmo Mattino – dove ha vissuto per alcuni anni – e ha scritto circa 140 pubblicazioni sulla Corea. Docente di Lingua e Letteratura della Corea all’università degli studi di Napoli “L’Orientale”, Riotto ha tenuto corsi come visiting professor anche in vari atenei coreani.

La sua ultima fatica esce in questi giorni  in libreria: è  Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India, scritto dal monaco coreano Hyech’o nel VIII secolo e tradotto per la prima volta in italiano (edito dalla casa editrice Obarrao di Milano). E’ un resoconto di viaggio interessantissimo: il monaco buddhista racconta le sue esperienze, gli incontri e i luoghi, ma anche i cambiamenti epocali di cui è testimone. Hyech’o scrive in cinese e il prof. Maurizio Riotto ha tradotto da questa lingua che, come ci spiega nell’intervista, ha un legame storico con il mondo coreano.

Sempre per Obarrao, nel 2004 ha tradotto Hong Kiltong – Il brigante confuciano, opera di un autore coreano – che scrive in coreano –  del XVI-XVII secolo. Oltre alla traduzione,  Riotto ha scritto anche una fondamentale introduzione, senza la quale ci sarebbe difficile collocare e comprendere un’opera così lontana dalla nostra cultura.

1 – Come è nato il suo interesse per la lingua coreana? C’è stato un libro, un viaggio, un evento particolare che hanno suscitato in Lei il desiderio di accostarsi alla cultura e alla lingua di questo Paese?

Il mio interesse per la Corea nasce già ai tempi del liceo e probabilmente va inquadrato in quella voglia di esotismo (o se vogliamo, la voglia di “scappare”) spesso riscontrabile negli adolescenti. Mi piaceva l’Oriente, e per quanto possibile cercavo di documentarmi con quello che riuscivo a trovare, e fu allora che mi accorsi dell’enorme sproporzione esistente far il numero delle pubblicazioni su Cina e Giappone e il materiale riguardante la Corea. Intuivo comunque l’importanza di questo Paese nella storia dell’Asia Orientale e, da studente del Liceo Classico, gli avevo attribuito, mutatis mutandis, un ruolo simile a quello della Grecia nel Mediterraneo. In Occidente, la civiltà nata nella mezzaluna fertile era stata in gran parte mediata dalla Grecia prima di arrivare a Roma e in buona parte dell’Europa. In Oriente, a rielaborare la cultura cinese esportandola poi verso il Giappone era stata proprio la Corea. La debolezza politica e militare del Paese maturata negli ultimi secoli, però, avevano fatto sì che il Giappone, la cui cultura era praticamente stata fondata proprio dai coreani, finisse per essere maggiormente conosciuto nel mondo, laddove la Corea era rimasta praticamente nel dimenticatoio in oltraggio a qualunque giustizia storica. Ecco, è stata proprio la voglia di correggere quest’”errore storico”, unita a una certa innata simpatia per i più deboli, a convincermi a dedicare la mia vita alla Corea.

2- Quali sono le maggiori difficoltà che si incontrano a tradurre da una lingua come il coreano? Più di ordine grammaticale e strutturale, a Suo parere, o di trasposizione di una “Weltanschauung”, di una visione del mondo diversa dalla nostra?

Le origini della lingua coreana sono ancora dibattute. Quel che è certo, è che si tratta di una lingua agglutinante, come il turco, l’ungherese e lo stesso giapponese. A tale riguardo, alcuni linguisti pensano addirittura che la base del giapponese sia costituita dalla lingua che si parlava negli antichi regni coreani di Koguryŏ e Paekche. Grammaticalmente è una lingua piuttosto semplice: i verbi non si flettono, non ci sono gli articoli, né nomi e aggettivi hanno genere e numero. Anche gli aspetti temporali dei verbi sono semplificati, come in genere accade nelle lingue estremo-orientali. Per chi, come me, ha come madre lingua l’italiano ed è stato abituato a tradurre il greco e il latino, una difficoltà nella traduzione del coreano può paradossalmente essere rappresentata proprio dalla vaghezza che contraddistingue questa lingua. Una maggiore e decisa difficoltà rispetto alla lingue europee, invece, è data dal fatto che, sviluppatosi in una società fortemente classista, il coreano oggi presenta molti livelli di conversazione da usare in base all’età e alla posizione sociale dell’interlocutore. Quest’aspetto, tuttavia, riguarda principalmente la lingua parlata.

In realtà, nella traduzione del coreano (ma potrei dire di ogni lingua) la conoscenza della cultura del Paese è fondamentale e irrinunciabile. Diceva Foscolo: “Per tradurre, bisogna lasciarsi pervadere dallo spirito dell’altro autore, scavare ed esplorare un sentimento, una risonanza, identificarsi fino a diventare traduttore di se stesso”. Questo vale soprattutto per le poesie, più della prosa difficili a tradursi, che non trasmettono notizie ma emozioni e sentimenti. È, nei fatti, il mondo dell’ineffabile e dell’infinito, che ho tentato e tento di trasmettere al lettore con i mezzi della nostra lingua, ossia l’italiano.

3- Lei traduce sia dal coreano, sia dal cinese. La prima – mi corregga se sbaglio! – è una lingua alfabetica, quindi più simile a quelle occidentali, mentre il cinese è una lingua ideografica. Entrambe esprimono, però, due mondi culturalmente contigui, che condividono tradizioni (penso al confucianesimo o al buddhismo). Qual è la sua esperienza nella traduzione, se dovesse metterle a confronto?

L’alfabeto coreano fu inventato nel 1443 e promulgato il 9 ottobre 1446, dopo tre anni di prova durante i quali ne venne saggiata l’adattabilità alla lingua. Prima di quella data, i coreani usavano i caratteri cinesi, o scrivendo in toto in lingua cinese o adattando gli ideogrammi cinesi alla propria lingua, che dal cinese è diversissima. Di fatto la conoscenza dei caratteri cinesi è indispensabile per la conoscenza del coreano, anche perché la lingua usata nei documenti ufficiali fino al 1910 fu sempre il cinese e il cinese fu sempre la lingua dei dotti, che spesso lo usarono nelle loro opere (un po’ come i nostri antichi letterati che preferivano il latino al volgare). I caratteri cinesi, oggi aboliti in Corea del Nord, continuano invece ad essere usati in Corea del Sud, soprattutto nella trascrizione di termini rari o in caso di omofonia fra diversi vocaboli, quando la scrittura alfabetica potrebbe generare equivoci nella comprensione. Tuttavia, anche se oggi oltre il 60% del lessico coreano deriva dal cinese (e i vocaboli di origine cinese sono gli unici che si possono scrivere anche con gli ideogrammi, in alternativa all’alfabeto nazionale), i popoli cinese e coreano non potrebbero essere all’origine più diversi. In verità, l’avvicinamento culturale della Corea alla Cina è un fatto relativamente recente, maturato soprattutto negli ultimi 500 anni: prima di allora, i modelli culturali dei due Paesi si discostano alquanto. I temi letterari sono però spesso comuni, anche se non sempre trattati allo stesso modo: in ogni caso, la traduzione del cinese classico, oltre ai soliti problemi riguardanti le traduzioni di tutte le lingue cosiddette “morte”, che puntualmente si scontrano con la conoscenza inevitabilmente incompleta che si ha riguardo alla storia e alle istituzioni di un mondo passato, investe prima di tutto la sfera della lingua in sé. Mentre il coreano è una lingua agglutinante, infatti, il cinese è una lingua isolante, con una grammatica, se possibile, ancora più semplice rispetto a quella del coreano. Questa particolare natura della lingua fa sì che il cinese sia quasi un gigantesco rebus (esagero, ma fino a un certo punto), dove le varie parole sono semplicemente poste una accanto all’altra e sta al traduttore unirle in un nesso logico. Se a ciò si aggiunge il fatto che i vari ideogrammi hanno spesso numerosi significati, si capisce come la traduzione del cinese classico sia, più di altre lingue, una vera e propria proposta, non di rado opinabile. Il grande sinologo francese Chavannes, un giorno lodato per la sua indubbia conoscenza del cinese classico, rispose modestamente che più lo traduceva e più si accorgeva di non conoscerlo. Direi che da questa risposta traspaiono tutta la difficoltà nella traduzione di questa lingua e tutta la modestia (e l’umiltà) richiesta al moderno traduttore.

4- Tra il coreano più antico e quello attuale ci sono differenze rimarchevoli? Quali difficoltà affronta il traduttore letterario? Come sta cambiando il coreano di oggi?

Come tutte le lingue, anche il coreano ha conosciuto parecchie mutazioni nel corso dei secoli. Questo è accaduto anche nell’italiano e, del resto, possiamo rendercene facilmente conto leggendo Dante per il quale, per esempio, “però” significa “perciò” e “noia” vuol dire “danno”, con un significato molto più forte rispetto a quello attuale. Fortunatamente, la ricerca filologica e linguistica ha fatto in Corea enormi progressi negli ultimi decenni e oggi il traduttore del coreano classico ha a sua disposizione molti preziosi strumenti bibliografici in grado di aiutarlo nel suo lavoro. Le maggiori difficoltà nella traduzione sono spesso legate a espressioni idiomatiche e dialettali, per comprendere le quali l’aver vissuto sul posto e la conoscenza della cultura coreana sono, come ho già detto, indispensabili. In questo modo, giusto per fare un esempio, l’espressione “mangiare gli spaghetti” vuol dire “sposarsi”, perché gli spaghetti sono un piatto tipico dei banchetti di nozze. In altri casi, ci sono espressioni che si rifanno all’immaginario collettivo del popolo coreano, a sua volta spesso influenzato dai classici e dalla storia della Cina. Nelle opere classiche coreane si incontrano spessissimo espressioni del tipo “donna bella come Yang Guifei” o “giovane abile nei versi come Li Bo”. Questo costringe il traduttore a una traduzione molto libera (per esempio, “donna di rara bellezza” e “giovane di eccelso talento poetico”), o a una traduzione letterale però supportata da una nota, perché se ogni lettore coreano sa benissimo chi erano Yang Guifei e Li Bo, lo stesso non accade per il lettore europeo.

Con riferimento alla lingua attuale, oltre al sostrato cinese, accumulatosi nei secoli, compaiono sempre più spesso termini di derivazione occidentale e, soprattutto, prestiti dall’inglese. Tuttavia, non sempre tali termini stranieri mantengono lo stesso significato che hanno nella lingua originale: davvero tipico è, al riguardo, il caso del vocabolo “ppang” (pane), che in coreano indica non solo il nostro pane, ma spesso anche i dolci e le torte di stile occidentale. In altri termini, praticamente quasi tutto ciò che non è derivato dal riso, l’alimento per eccellenza al di fuori del quale ogni cosa diventa quasi uno “sfizio”. Anche in questi casi, una volta di più, l’esperienza diretta del Paese sarà la guida migliore nella traduzione.

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